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Agartha

(Traduzione di Stefano Pirone)

Volevano riappropriarsi della mia cagnetta. Non avendo ripagato il mio mutuo studentesco, i creditori mi inviarono una lettera per avvertirmi che sarebbero venuti a prenderla. Questa è stata l’ultima goccia che finalmente mi ha fatto decidere di abbandonare la vostra società.

Fui molto attento a non rispondere al telefono. Trattenni il fiato quando qualcuno venne alla porta.

Il mio cane abbaiò. Le poggiai una mano sulla nuca, dove avrebbe avuto un collare se fossi stato una persona crudele. Le dissi, «Shhhhhh.»

Il suo manto era liscio e splendente perché l’avevo nutrita con avocado e uova per prepararla al nostro viaggio, alla nostra fuga. Era una bella sensazione sentire la sua pelliccia sul palmo della mia mano, non provavo alcuna paura.

L’ombra fuori nel porticato si affacciò al vetro di una finestra con le mani a conchetta, cercando di scrutare in casa mia. Ma l’elettricità era saltata da quando avevo fatto saltare la bomba nel mio scantinato creando un buco nel pavimento, ampio e profondo.

«Tutto bene lì dentro?» Il mio cane ringhiò. La persona se ne andò.

Avevano già rimorchiato la mia auto nel vialetto. Ma andava tutto bene, mi ero preparato e non avrei avuto bisogno di un’automobile dove stavo per andare.

Vi ha mai detto nessuno che la Terra è cava? È lì che si trova Agartha. Potreste andare a vivere nella roccia cava sotto i vostri piedi, se volete. Ci sono molti passaggi segreti, molti ingressi, per la maggior parte stretti. Bastano un paio di bitcoin per comprare una mappa poco chiara. Adorereste abitare lì, il costo della vita è più basso. Non c’è bisogno di un’automobile né di pagare l’assicurazione o la benzina o il cambio dell’olio. Incredibile cosa si impara su Internet.

Qualcuno bussò sulla porta sul retro. Mi affacciai da dietro l’angolo. Attraverso la finestra nella porta riuscivo a vedere un’altra sagoma offuscata nel mondo illuminato dalla luce del giorno.

Sussurrai al mio cane, «È stato un errore comprare tutta quella conoscenza e poi tentare di rivenderla a qualcun altro. È così che a volte si trasmettono le maledizioni: ci si salva dal malocchio solo maledicendo qualcun altro.»

Così, usando la luce dalla torcia del cellulare, aprimmo la porta della cantina e cominciammo la nostra avvenuta verso il basso.

La mia fantastica valigia con le rotelle si trovava sulla bocca del cratere, stipata di attrezzi da sopravvivenza e cibo: carne secca, fagioli neri, latte e caffè in polvere, barrette ai fichi e semi di girasole, nove galloni d’acqua.

La bomba non aveva aperto il passaggio per Agartha. Dovetti farmi strada a forza di martello pneumatico attraverso altri due metri di roccia, ma finalmente riuscii a creare un’apertura e a far riaffiorare l’ingresso di una delle gallerie.

Allora lanciai la mia valigia nel passaggio, quindi saltai giù nella galleria. Invitata da un fischio, anche la mia cagnetta fece un salto di fede. La presi al volo come un touchdown. Mi seguirebbe ovunque. Premetti il pulsante e la nostra lanterna si accese. Cominciammo a camminare attraverso l’impervia galleria: radici, acqua che gocciolava dall’alto, puzza di minerali, ciottoli che cadevano qua e là, il rombo distante dei veicoli.

Con l’1% di carica della batteria rimasta e con pochissimo campo, mi fermai e inviai a mio fratello questa breve email:

Ehi,

Ho fatto esplodere una bomba a casa e sono sceso nel cratere. Non verrò da te per il Ringraziamento. Di’ a Michelle che mi dispiace. Se vuoi, c’è un martello pneumatico che è caduto nel buco, a due metri di profondità. Se lo tiri fuori e lo riporti da Hardware Heaven, puoi recuperare la mia caparra. Sono $100. Ti voglio bene, non seguirmi.

Tuo fratello

Infilai il cellulare in tasca, ma protestò vibrando come un animale incavolato. Un messaggio.

Ragazza dell’appuntamento: Ciao, sono al ristorante. 6 qui?

Io: Scusami! mi sono dimenticato dell’appuntamento! Proprio ora sto discendendo al di sotto della crosta terrestre…

Ragazza dell’appuntamento: che significa?

Io: uhm, mi trasferisco, cambio mestiere… non voglio più fare il professore a contratto, non voglio insegnare scrittura creativa… ho deciso di avventurarmi nel sottosuolo, mi sembra giusto

Ragazza dell’appuntamento: Sul serio?

Io: quindi probab per un po’ non frequenterò nessuno, ma tu non c’entri niente

Ragazza dell’appuntamento: Ma vaffanculooooo

Volevo confortarla, in modo che capisse che non la stavo rifiutando, ma che stavo rifiutando lei e tutto il resto. Ma fu inutile.

Il primo giorno camminammo senza riposarci, scendendo gradualmente sempre più in profondità. Le pareti erano fangose e, in alcuni punti, sfregavano contro le mie spalle. A un certo punto cominciai a sentirmi claustrofobico e camminai di lato. Tirai fuori il cellulare scarico dalla tasca e lo scagliai nel fango. Scomparve con il suono di un risucchio e io sorrisi, sentendomi sollevato. Più tardi, quello stesso giorno, lanciai il portafogli e le chiavi dell’auto e della casa al di fuori della luce della lanterna. Mi avvolsi in una coperta di lana e mi sedetti con il mio cane sotto stalagmiti punteggiate di funghi arancioni e gialli. Il tempo esisteva solo sull’orologio da polso, ma ogni secondo che ticchettava via suonava come un gioioso addio alla storia umana.

Quella notte sognai che la mia casa veniva caricata sul retro di un camion e che veniva trasportata alla banca e che la banca mangiava la mia casa. Tutti i banchieri uscivano dalla banca e strappavano un pezzo della mia casa e, nel pieno della luce accecante del sole, ridevano e mangiavano e ingrassavano mentre consumavano tutto ciò che possedevo, e io mi sentivo sempre meglio. Attraversavano le pareti della casa divorandole e mangiavano ogni libro che avevo letto. Per ogni libro che mangiavano, sentivo la mia testa un po’ più libera. E poi mangiavano i miei vestiti e i miei album fotografici e persino le ceneri di mia madre e mio padre sulla mensola del camino, e anche questo mi faceva sentire bene. I banchieri mangiavano la mia camera da letto e consumavano la pila di bollette sul mio comodino. Mangiavano i miei calendari sul muro. Mi liberarono di tutto. Mi svegliai felicissimo.

Svegliai il cane e, alla luce della lanterna, le diedi da mangiare dei cracker, del pollo in scatola e le ultime carotine rimaste.

Continuammo a camminare. Il passaggio era una discesa piena di curve. Di tanto in tanto trovavo un paio di scalini scavati con evidenti segni di scalpello. Opera dell’uomo. A un certo punto, quel giorno, trovai un graffito sulla parete in vernice spray rosa: COME FANNO A VEDERE ALTRO CHE OMBRE?

Sopra, c’erano iniziali e date… tizio caio è stato qui. A parte un po’ di immondizia occasionale, quella fu l’unico segno di vita americana che vidi, a meno che alcune delle svastiche che trovai non fossero state disegnate da americani, cosa che, si sa, a volte fanno.

Più tardi, quello stesso giorno, io e il mio cane ci imbattemmo in un’enorme pozza d’acqua, fumante e apparentemente fresca, ma non lasciai che il mio cane vi entrasse dentro né vi entrai io stesso. Poco tempo prima avevo sentito una notizia al telegiornale di una persona che si era calata in una pozza termale al Parco nazionale di Yellowstone e si era sciolta nell’acqua, morendo quasi istantaneamente disintegrandosi.

Invece di entrare nella pozza, versai dell’acqua in bottiglia e la feci bere al cane.

Dissi, «A volte penso che la conoscenza sia soltanto un peso che schiaccia le persone. Più sai, più il peso ti spinge giù. Potrebbe salvarti la vita, ma ti rende anche infelice.»

Il mio cane alzò lo sguardo verso di me e mi chiesi quanto fosse bello conoscere soltanto un paio di parole.

Dissi, «Lo sai che le formiche sono in grado di reggere dieci volte il proprio peso? Lo sai che le formiche hanno il QI di una formica? Non sono molto intelligenti. Se la cavano alla grande, possono reggere molto peso. Le formiche sono felicissime e hanno tutto ciò di cui una formica può aver bisogno per vivere un’appagante vita da insetto. Io non posso neanche permettermi delle nuove scarpe da ginnastica. Ho semplicemente riattaccato la suola con la colla e ora sono pronto per camminare per un po’.»

Dopo la mia orazione al mio cane silenzioso, anch’io smisi di parlare per giorni. Come se avessi fatto un voto e il voto stava alimentando il viaggio.

Il passaggio si aprì in una grande sala di pietra. Un anfiteatro naturale, vuoto, fatta eccezione per l’eco dei miei passi e per l’ansare del mio cane.

Qualcuno vi dirà che è assolutamente impossibile che la Terra sia cava. Conosco bene quel tipo di persone. Le vedevo in continuazione sulle bacheche dei messaggi. Discutevo con loro per tutto il tempo. Ma ogni volta che cercavo di combattere la loro ignoranza, l’unica conclusione che traevo dalle mie ricerche era che ci sono tantissime cose al di là della portata infima della mente umana… Cliccavo su un link e scoprivo altre verità (foto satellitari scattate dallo spazio di enormi buchi visti nel polo nord). (Un rispettabile pilota dell’aviazione militare che aveva condotto il suo aereo in una di queste aperture e che aveva visto con i suoi stessi occhi le vaste distese di montagne sotterranee, fiumi e persino un mare purpureo, splendenti città nascoste sotto la roccia.)

Sentii parlare di Agartha per la prima volta in un video su YouTube. Un astronauta che giocava con una bolla d’acqua in assenza di gravità.

L’astronauta aveva un aggeggio che riproduceva l’esatta rotazione della Terra attorno al Sole. E la bolla d’acqua restava sospesa nell’orbita.

L’astronauta faceva notare che si stavano formando delle bollicine d’aria all’interno dell’acqua fluttuante e che queste venivano spinte al centro, creando un vuoto naturale.

Nella parte successiva del video, l’astronauta narrava in un video a cartone animato come la Terra si era formata dalla lava fluida e come, mentre la lava disegnata si raffreddava nello spazio, bolle d’aria si formavano al centro della Terra. Quel posto si chiamava Agartha.

Al terzo “giorno”, la temperatura cominciò a salire, poiché c’è un sole blu al centro della Terra e io mi ci stavo avvicinando con il mio cane. La Terra non ha un nucleo liquido, ha un sole blu. La scienza non è fichissima?

Arrivati al terzo giorno mi sento abbastanza a mio agio da rivelarvi che il mio cane si chiama Enoch. È una bravissima cagnetta. È gentile e non troppo sveglia, ma il suo olfatto e il suo senso dell’orientamento sono impeccabili. Quindi, quando trovavo delle diramazioni nella galleria, mi sentivo sempre tranquillo a lasciare che fosse Enoch a scegliere la direzione da prendere. La quinta notte ci fermammo, sempre nella nostra galleria, e io mi sedetti e mangiai, e diedi da mangiare a Enoch un po’ della nostra carne secca e gli ultimi Cheerios rimasti.

La luce della lanterna cominciava ad affievolirsi, la sua batteria si stava scaricando e non sarebbe durata ancora per molto.

«A breve brancoleremo nell’oscurità come degli ignoranti. Preparati a un nuovo stile di vita. Per fortuna ho portato altre batterie.»

Ma poi sentii un suono di uccelli e fui folgorato nel vederli passare davanti a noi. Enoch saltò mordendo in aria, ma gli uccelli erano troppo piccoli e veloci.

Così fui certo che stessimo andando nella giusta direzione. Gli uccelli cercavano di far ritorno nel vostro cielo.

Dopodiché, Enoch non dovette nemmeno più scegliere che direzione prendere ai bivi. Sapevo di dover camminare verso gli uccelli, seguendo la direzione opposta alla loro. Di dover andare contro il buonsenso animale che li porta a voler vedere quel cielo che si trova sul lato superiore. A voler sentire il dolce vento. A lasciare che la pioggia sciacqui la polvere dalle loro ali.

Quella notte, poco prima che fossimo pronti a fermarci, giungemmo a una ramificazione nella galleria con un cartello: destra città, sinistra canyon.

Salii alcuni gradini di pietra verso il canyon. Enoch non voleva andare da quella parte, così la lasciai nella galleria, con la coda calata e che ringhiava. In cima agli scalini c’era un piccolo portello, chiuso con una spranga, ma che poteva essere aperto. Sollevai il portello e la galleria fu immersa da una luce blu. Finii di spalancarlo e mi arrampicai al suo interno.

Enoch abbaiò. «Va tutto bene,» le dissi. Ma non ne ero così sicuro.

Lassù, il sole blu se ne stava lì al centro tra due ripide pareti di pietra, gialle e bianche, che sembravano impossibili da scalare. Quel sole non sorgeva. Quel sole non tramontava. Levitava per sempre al suo posto. Sulla parte alta del canyon c’era dell’edera che cresceva a chiazze qua e là.

Discesi lungo il percorso davanti a me. Tutto ciò che vedevo era pietra ed edera. Ma più mi allontanavo dal portello, più perdevo la testa. Poi vidi qualcosa che veniva verso di me e mi immobilizzai. Qualcosa delle dimensioni di uno stivale, che saltava con grossi balzi. La creatura era ricoperta di una pelliccia che veniva trascinata per terra. Zanne sporgenti. Corna. La creatura capì che mi trovavo lì e alzò la testa per guardarmi negli occhi. Fu in quel momento che sbroccai, mi voltai e scattai verso il portello.

Una volta ritornato nella galleria con Enoch, mi sentii meglio. Mi sedetti sui gradini e mi calmai. Enoch era seduta sul pavimento e beveva delle goccioline che cascavano dal soffitto della galleria.

Sollevai di nuovo il portello e mi affacciai. Lassù c’erano altre creature come quella. Adesso ne contavo tre. Annusavano il terreno e saltellavano in giro.

Abbassai il portello e lo richiusi con la spranga. Dissi a Enoch, «OK, ragazza, avevi ragione riguardo al canyon. Non è sicuro. Il canyon è pieno di conigli dallo spazio… dallo spazio interno. Andiamo.»

Continuammo a camminare così per altri due giorni, ignorando le ramificazioni della galleria che andavano in altre direzioni rispetto alla città.

Rimasi sbigottito quando arrivammo improvvisamente al termine della galleria e trovammo una donna seduta a una scrivania, che leggeva una rivista a lume di candela. Dietro di lei c’era una porta di legno.

«Non sei una donna-lucertola…» dissi sorridendo.

«Grazie per averlo notato,» rispose. Aveva un forte accento tedesco.

«Sono alla ricerca di un nuovo mondo in cui vivere. Si trova dietro la porta?»

Guardò alla porta e ci pensò su. «Mi piace, credo. Ma dovresti lavorare. Lavorerai?»

«Lo farò, se proprio devo.»

«Devi proprio, già. È così che funziona. Che tipo di competenze hai?»

«Ero un insegnante,» dissi. «Un professore universitario.»

«Oh, non va bene,» si accigliò. «D’accordo, posso vedere qualche prova?»

Pescai nella mia tasca posteriore e tirai fuori la tessera di identificazione che usavo per entrare all’università. Avevo anche il mio diploma. Glieli passai entrambi.

Guardò Enoch. Dissi, «Non morde.»

Lei rispose: «Ha le zanne, quindi morde. Qualsiasi sciocco lo sa.»

La donna aggrottò le sopracciglia e mi restituì il diploma.

«Noi non diamo valore alla conoscenza. Quanto guadagnavi all’anno, lassù?»

«-15.000 dollari.»

«Per fortuna non ci sono lavori di insegnamento qui. La maggior parte dei professori universitari sono diventati scavatori di trincee e ora effettuano lavori manuali pesanti. Sai pelare le patate? Hai mai fatto alcun lavoro da inserviente? Hai mai sotterrato i morti?»

Ripiegai con cura il mio diploma e lo infilai nella tasca.

«Sotterrare i morti? Ma ho una laurea,» dissi.

«Quindi pensi che questo lavoro non sia al tuo livello?»

Risi.

«Fisicamente parlando,» disse, «sei al livello più basso possibile al mondo. Se vuoi entrare, dovrai brandire un piccone, dovrai raccogliere funghi, dovrai tosare bestie lanose e lavorare ai getti d’acqua che prosciugano gli oceani per irrigare i nostri raccolti. Farai questo genere di lavori?»

«Sarò valutato?»

«Sì, sarai valutato.»

Fissai la porta chiusa dietro la sua scrivania.

«Quello che c’è al di là della porta…» dissi. «È l’Inferno?»

«Ma no, è un bel posto. C’è poca criminalità. Solo che non c’è la normale luce del Sole. Il posto da cui provieni tu… era quello l’Inferno?»

Scossi la testa. «Spazzerò il sottosuolo,» dissi.

«Bene. Ma prima fammi vedere come mangi il tuo diploma di laurea.»

Dissi, «Consideralo fatto.»

Tanto avevo fame. Così tirai fuori il mio diploma dalla tasca posteriore e me lo infilai in bocca. Masticai e masticai.

Dopodiché la donna mi fece compilare delle scartoffie.

Scrissi tutto con scarabocchi gioiosi. Il timbro di gomma si levò nell’aria e si scagliò sulla mia domanda di ammissione.

«Benvenuto nella tua nuova vita.»

Quando la porta si aprì, un’ondata di uccelli che attendevano la loro occasione volò via in un frusciare disperato. Il mio cane ruotava la testa, con la lingua che penzolava all’infuori, guardandoli sfrecciare nell’oscurità più totale.


Bud Smith lavora nell’edilizia e vive a Jersey City, New Jersey. È l’autore di F250, Calm Face, Dust Bunny City. Le sue memorie, Work, sono state pubblicate da CCM (Civil Coping Mechanisms) nel 2017.