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Lungo una baia di plexiglass

Nella cassetta della posta trovi alcuni fogli scritti a mano. Francesco nota la tua perplessità e ti dice che non c’è da stupirsi: scrivere lettere è tornato di moda.1
Inizi a leggere.

La prima foto che Sandro mi fece vedere fu quella di un ragazzino inginocchiato ai piedi di un uomo nudo il cui pene eretto, ebbi l’impressione, somigliava più a una promessa che a una minaccia. Disse che gliela aveva regalata un amico. A suo modo era una fotografia artistica.2 La smorfia del bambino, il fatto che non si vedesse il volto dell’uomo, il bianco e nero sgranato, non so, la plasticità delle pose.“Voglio che la tieni tu,” mi disse Sandro quando ci salutammo. Quella sera mi addormentai sognando quello che venne dopo lo scatto della fotografia. Questa era la scena: il ragazzino aveva appena finito di fare quello che doveva fare e tutti erano indaffarati a smontare il set, in giro c’era un po’ di sangue, il ragazzino si stava ripulendo, faceva caldo, alcune donne in costume da bagno sorseggiavano drink, l’attore adulto si stava facendo un bidè mentre fuori dalla palestra (perché nel sogno il set era all’interno di una palestra, hai presente le palestre delle scuole elementari?3) le onde del mare lambivano placide la spiaggia deserta. Mi svegliai pieno di nostalgia. Nostalgia che si acuì senza misura nel corso della giornata e che a sera, dopo essermi incontrato con Francesco, raggiunse il suo zenit. Sai bene che sono sempre stato un sentimentale e che proprio in quei giorni il mio rapporto con lui stava andando alla deriva. Ma metto subito le mani avanti: non ero triste per questo. La mia era una tristezza, avrebbe detto qualcuno, simile a quella degli universi vuoti. Un limbo emotivo che oggi faccio fatica a ricordare. A volte alcuni sprazzi di felicità. Più spesso, l’abulia. Il giorno successivo chiamai Sandro chiedendogli un appuntamento. Ci incontrammo a casa sua. Mi disse: “Ho altre foto.”

«Una prosa così demodé,» osserva Francesco.

(…) Andai da lui anche il giorno dopo e quello dopo ancora.

Sua madre, come tu sai, avrebbe tirato le cuoia di lì a breve. Sandro non ne parlava mai, probabilmente ricordi anche questo, evitava ogni accenno a sua madre – ricordi, no? Eppure non sembrava triste. Quando gli chiedevo perché fissasse con tanto accanimento gli angoli più bui del salone lui rispondeva che nell’ombra del pomeriggio vedeva e sognava “specchi d’acqua immensamente profondi dove perdersi e tornare alla luce lasciandosi indietro ogni residuo di esistenza.” Una naïveté così artificiale da risultare inquietante.

Sua madre non usciva mai dalla camera da letto. In precedenza avevo visto sua madre diverse volte, ma il ricordo che ho di lei, ora, è quello di una porta chiusa.

Un pomeriggio, appena arrivato a casa sua, Sandro mi disse che doveva farmi vedere una cosa. Scendemmo in cantina. Lì, disseminati ovunque, alcuni oggetti a cui non sapevo attribuire né utilità né senso4. Tentare di descriverli è impossibile. Sandro me li indicò. Domandai cosa fossero e a cosa servissero. Rispose che non lo sapeva. Disse che glieli avevano regalati.
Chi?”
Un amico.”
Non chiesi altro.

La sera guardammo un film di cui, perdonami, adesso mi sfugge il nome5. Il film era la storia di un padre di famiglia che un giorno, tornando dal lavoro, scopre che sua moglie e i suoi figli sono dei semplici gabinetti di ceramica. Lui decide di amarli ugualmente, anzi, di amarli meglio e più di prima. Tant’è che alla fine i figli, da due, diventano nove. Sandro lo considerava il suo film preferito in assoluto. “In certi periodi sono arrivato a vederlo, in un giorno solo, anche cinque o sei volte.” Lo trovava consolatorio, purificatore. Catartico, in qualche modo. Quella sera dormii da lui. Discutemmo a lungo del monologo finale del protagonista. Ti cito l’inizio così, a braccio: “E ogni mattina, quando mi alzo, mi guardo indietro. E cosa vedo? Polvere.” Poi prosegue parlando di quanto la strada sia sempre troppo lunga e di come le piscine vuote in estate siano indicative del nostro passato: “l’odore del cloro che aleggia nell’aria,” ecco, questo ultimo passaggio me lo ricordo bene, “anche se da anni il cloro non c’è più. L’esistenza, o quella unità temporale più o meno lunga che noi chiamiamo esistenza, in fondo non ha molto a che fare con noi.” Il film si chiudeva con queste parole. Mi addormentai pensando a piscine vuote e a duchampiani gabinetti con t-shirt e parrucca. La mattina, quando mi svegliai, Sandro non c’era. Mi aveva lasciato un biglietto nel quale diceva che era dovuto uscire per sbrigare alcune faccende con un suo amico e mi pregava di non andare per nessun motivo in camera di sua madre. “Puoi aspettarmi a casa oppure puoi ripassare nel pomeriggio. Anzi, meglio verso sera. Sandro.”

Me ne andai a casa.

Dopo aver abbassato le tapparelle assunsi fra le trentacinque e le quaranta gocce di Xanax (una decina in più del solito) e mi sdraiai sul letto. Bevvi anche un bicchiere di vodka. Tornai indietro fino al sogno della fotografia. Era come camminare lungo una baia di plexiglass, non so se rendo l’idea.

La mattina dopo mi chiamò Sandro.

Ora, senza dilungarmi, non fui sorpreso quando disse di voler fare sesso con me (lo disse sottovoce, quasi disperato, come se stesse sognando) e non fui sorpreso quando, più tardi, ci ritrovammo avvinghiati sul pavimento della cantina, in mezzo a quegli oggetti privi di significato di cui ti ho accennato sopra. Nessuno dei due riuscì ad avere un’erezione. Puoi immaginare da te che cupa farsa siano stati i gemiti e gli ansimi e i sospiri.*

(…)

*Un retaggio di dècadence?
suona bene, però

Sandro avrebbe poi detto, giuro, senza un’ombra di ironia6: “Mi è piaciuto farlo con te.”
E io avrei risposto: “È stato bello, sì.”

Sandro disse: “Ho altre foto.”
Erano tantissime; saranno state almeno un centinaio. Una foto in particolare mi colpii: un ragazzo che avvicinava un coltello elettrico ai genitali di un coetaneo.7 L’ambientazione della fotografia era una specie di enorme wasteland senza nome creata dalle luci di scena sparate al massimo. Nella foto successiva il ragazzo del coltello elettrico teneva in mano i testicoli sanguinanti del coetaneo il quale, truccato come un cadavere, guardava ridendo a bocca spalancata verso l’obiettivo. “Non lo ha castrato veramente,” disse Sandro notando la mia perplessità, “alcune sono dei falsi.” Mi è sembrato che volesse aggiungere un purtroppo.8 Gli ho chiesto allora se per caso quelle fotografie lo eccitassero (credimi: non è una domanda banale come potrebbe sembrare) e lui sai cosa ha risposto? Ha risposto di no. Assolutamente no. Anzi, disse, lo annoiavano. Mi sono sentito un idiota. La conversazione non è proseguita oltre.



Sebbene tu sia ancora ancora all’inizio della lettera hai già capito che non andrà a parare da nessuna parte: l’idea che ti dà è quella di un ultimo sfogo, diciamo così, letterario. Come se la letteratura riuscisse, per chissà quale intercessione divina, a mitigare o ritardare la consapevolezza.
Francesco sta ridendo: quale consapevolezza?
L’altra notte, tornando a casa, avete assistito a una scena terrificante. Né tu né lui sapete dire nulla in proposito. Lui comincia a credere di essersi immaginato tutto, compresa la paura. Tu non ricordi molto. Le notti sono più lunghe.
Francesco ti ha confidato qualcosa di così osceno (“osceno” nell’accezione moderna del termine, chiaro) che tu non hai resistito e sei scoppiato a ridere. Lui l’ha presa male e tu hai avuto paura che dicesse qualcosa a Giovanni. Ma alla fine, hai pensato, chi se ne importa.



I miei ricordi di quei giorni si svolgono tutti sotto un cielo color ruggine.
Sandro mi chiamava nel cuore della notte per descrivermi le differenze fra il silenzio di sua madre e quello delle fotografie. Al calare del sole attaccava allo specchio del bagno le fotografie che preferiva (cancellava sempre i volti con l’evidenziatore nero – non mi ha mai spiegato perché) e rimaneva a osservarle finché il sonno non aveva la meglio. Non so che tipo di congiunture astrali ci fossero in quel periodo.9
A volte mi chiedeva di Francesco e della nostra intimità. Mi confidò di esserci andato a letto anche lui, qualche tempo prima. “Solo per noia,” spiegò, “non ricordo nemmeno dove successe.” A dirti la verità non credo che fra loro due sia mai successo nulla.10 Quando vedrai Francesco chiediglielo. Si tratta solo di una curiosità. E magari, se riesci, fammelo sapere in qualche modo.
Tornando a Sandro.
Una sera decidemmo di andare downtown (il nostro modo di chiamare l’aldilà oppure i luoghi che frequentavamo dopo le ventuno) per incontrare alcuni tizi che tu forse conosci ma che non è importante citare.11 Insomma. Una sera decidemmo di andare downtown per incontrare alcuni tizi che tu forse conosci ma che non è importante citare e uno di questi tizi che tu forse conosci ecc. ecc. a un certo punto mi disse che le cose sarebbero precipitate presto. Gli chiesi a cosa si riferisse. Lui mi disse che non era a qualcosa, che si stava riferendo, ma a qualcuno. Gli domandai il motivo di quell’affermazione e lui mi indicò una figura nascosta dietro il portone a vetri di un palazzo.
Ci sta seguendo da prima,” disse.
Effettivamente la figura ci seguì – nascondendosi di portone in portone – finché non arrivammo al pub.
Nel bagno del pub trovai, attaccata allo specchio, la fotografia di una stanza vuota; portai la fotografia a Sandro e come in un’allucinazione gli domandai, vista la sua abitudine, se fosse stato lui ad attaccarla lì. Sandro, sorpreso, mi rispose di no, non era stato lui. Sono tentato di tirartela per le lunghe raccontandoti anche di come la serata sia poi scivolata sempre più verso l’improbabile quando uno del gruppo12, per motivi che ignoro, decise di prendere a calci una Smart – e qui non posso dire che abbia fatto male – al cui interno c’era un diciottenne in lacrime con il labbro superiore spaccato in due. Il proseguo è esilarante, ma non è questo che voglio raccontarti – anche se non è escluso che decida di farlo più tardi o, chissà, in un’altra lettera.13
Faccio un salto in avanti e arrivo alla morte della madre di Sandro.
Adesso è un corpo vuoto,” disse lui poco prima che la bara entrasse nel forno crematorio.
All’interno dell’urna cineraria Sandro mise la fotografia che avevo trovato io nel bagno del pub e uno dei suoi denti da latte. Quel giorno fu la prima e l’ultima volta che lo vidi piangere.
Ti ho raccontato l’episodio dell’uscita serale, prima, perché lo ritengo a posteriori una metaforica anticipazione di ciò che furono gli ultimi giorni di Sandro. Quando Sandro diceva che la figura lo spiava anche in casa; quando Sandro diceva “è la Morte” e non si riferiva a sua madre o alla figura che a suo dire lo seguiva ovunque, no, ma alla fotografia di un bambolotto nudo fra rottami e luci al neon. Una specie di parodia umoristicamente opaca di tutte le fotografie che aveva collezionato fino ad allora. Sandro raccontò che la foto in questione l’aveva trovata una mattina sul davanzale della sua camera da letto. Ovviamente non ci credetti. Tu crederesti a una storia del genere?
Pensai che gli avrebbe fatto bene passare qualche giorno al mare da me e glielo dissi. Lui declinò l’invito adducendo come scusa una importante faccenda da sbrigare. Partii da solo. Francesco venne a trovarmi una volta, ma fu una situazione così deprimente che se ne andò, su mio consiglio, dopo appena mezza giornata.14 Altri giorni di Xanax e seghe e messaggi audio in cui Sandro mi parlava della città deserta e di come fosse facile rimediare per le strade arroventate un po’ di sesso (strade arroventate? sesso? Il cattivo gusto sembrava quello del Miller15 peggiore, giuro, anche se non credo l’avesse mai letto) e altre cose simili che sfumavano così.



I tre paragrafi successivi sono la descrizione delle sue attività marittime. Sottolinei una frase, “circoscrivere la vita al proprio corpo e non al luogo in cui si è.” Il resto: onanismo, fantasie masturbatorie16, frammenti di sogni e ricordi, stralci di assurde conversazioni telefoniche tra lui e Sandro, divagazioni.
Francesco dice: «Non ci posso credere.»
Non si riferisce al contenuto della lettera.



(…)

Tornai in città una settimana più tardi pensando che in fondo ci trovavamo tutti nel migliore dei mondi possibili. L’ipotesi che di conseguenza ci fossero però altri mondi con cui confrontarci mi riempiva di sconforto, era avvilente. Ecco spiegato e riassunto, pensai mentre passeggiavo all’ombra della vecchia fabbrica, il mood dell’estate. Ne discutei a lungo con Sandro e lui disse fra il serio e il faceto che avrebbe potuto inviare una lettera a sua madre chiedendole maggiori informazioni riguardo l’esistenza di altri mondi. “Anche per la curiosità di sapere se saremmo potuti nascere e morire altrove.” Ubriaco, lo sollecitai a farlo.
Non so dire che tipo di rapporto ci fosse fra Sandro e sua madre. Sandro accennava spesso a qualcosa che era accaduto quando lui aveva sedici anni come alla prima e definitiva rottura, ma il discorso non andava mai oltre: vuoi perché in fondo non me ne fregava nulla, vuoi perché faceva troppo caldo per ascoltarlo a lungo mentre parlava dei suoi trascorsi personali. Con il senno di poi sarebbe stato interessante conoscere qualcosa in più sul suo passato. Ma con il senno di poi, sarai d’accordo con me, sono interessanti tante cose…



«Non ci posso credere,» ripete Francesco.
«Che cosa c’è?»
«Vieni a vedere.»



(…)
Capii che la vicenda stava prendendo una brutta piega:
a) Quando mi resi conto che ero arrivato a gestire le mie giornate in base agli impegni di Sandro;
b) Quando mi resi conto che nei giorni in cui non mi chiamava ero triste e che la frequenza delle mie masturbazioni giornaliere aumentava del 60%.
c) Quando Sandro mi disse che aveva infilato nel frullatore uno di quegli oggetti assurdi che teneva in cantina e che forse si era rotto il naso perché l’oggetto, schizzando via, lo aveva colpito (ma come?) in piena faccia.
È di là, ma tu fai finta di nulla.” bisbigliò Sandro aprendomi la porta di casa. Aveva il viso incrostato di sangue secco e muco. “Chi c’è di là?” gli chiesi. “Nessuno,” rispose abbassando lo sguardo. In quel momento vidi alle sue spalle una porta che si chiudeva. Mi fece entrare.
Ci sdraiammo sul letto e lui tirò fuori da sotto il cuscino una sfera grigiastra di gomma (dico una sfera per comodità descrittiva, in realtà la forma era più complessa) e prese a strofinarmela delicatamente sulle labbra e sul collo mormorando oscenità disarticolate e incomprensibili. Posò la sfera sul comodino e mi pregò di scusarlo: era stanco, disse, e certe giornate pesavano più di una vita intera. Si spogliò. Sentii il rumore di una porta che si apriva e alcuni passi nel corridoio. “Non è nessuno,” disse Sandro baciandomi sulle labbra, “stai tranquillo.” Mi spogliai anche io. Sandro si alzò dal letto e si avviò verso il corridoio; mi fece cenno di seguirlo. Uscimmo dalla casa tenendoci per mano. Sandro disse che non c’era motivo di preoccuparsi, perché nessuno abitava più in quel palazzo. Nessuno avrebbe potuto vederci.
La cantina era illuminata a giorno da quattro potenti faretti a batteria. Sulla parete un enorme collage fotografico: coiti fra adolescenti e animali da fattoria, ragazzini morti o mutilati, case vuote, paesaggi lunari, nudi maschili e femminili, fotogrammi di vecchi cartoni animati. L’effetto generale, credimi, era così sconvolgente che in quel momento pensai di trovarmi, giuro, di fronte all’ultima opera d’arte dell’umanità.17 Notai, in basso a destra, la fotografia del bambolotto nudo fra i rottami. Quella che Sandro aveva definito più volte, fra il sonno e la veglia, “la Morte.”
Chi l’ha fatto?” domandai mentre da qualche parte risuonavano degli accordi di pianoforte.
Un mio amico,” rispose Sandro. “Ci ha lavorato tutta l’estate. Grandioso, vero?”
Già.”
Accanto a noi l’occhio impassibile di una videocamera.18
Sandro si sedette in terra e si prese la testa fra le mani. Stava piangendo. In quel momento provai un grande imbarazzo per la sua nudità. Poi provai un enorme imbarazzo per tutte le nudità del mondo, compresa la mia. E rabbrividii di vergogna quando pensai che la condivisione della nudità era forse, insieme all’omicidio, la pratica più diffusa fra gli esseri umani. Mi sedetti accanto a Sandro e senza dire nulla lasciai che si sfogasse. Quando vidi che si era calmato salii di sopra, mi rivestii e me ne tornai a casa.
Sandro mi chiamò la sera per dirmi che la Figura lo spiava dal palazzo accanto e che nel suo bagno c’era qualcuno che rideva. Gli dissi che avevo sonno e riattaccai. Non so. Non so spiegarti questo repentino cambio di atteggiamento nei suoi confronti. Forse potrà suonare cinico, ma credo che il mio interesse per lui fosse ormai svanito. Perché (…)19
Il collage è ancora nella cantina del suo palazzo. O hanno deciso di lasciarlo lì, oppure nessuno se n’è accorto. Ti consiglio di passare a dargli un’occhiata.20 È davvero grandioso.
P.S.: So che Sandro ti ha lasciato un album di fotografie. Potresti passarmelo, quando ci vediamo?



Nel parcheggio c’è una macchina che brucia al rallentatore. Tra le fiamme s’intravvede la figura di un uomo seduto al posto di guida. Nessuno dei passanti sembra accorgersi dell’incendio.

 





Note:

1Francesco ha ormai raggiunto il pericoloso status di “stereotipo culturale.” La cosa ti spaventa.

2Questa foto è inclusa nell’album che ti ha lasciato Sandro; anche tu l’hai apprezzata particolarmente.

3Come non averle presenti?

4In questo esatto momento ce l’hai duro.

5Il film in questione, il penultimo lavoro del regista George Lanthimos, si chiama “Mr. Gregory goes to Heaven”.

6Sandro non aveva il minimo senso dell’umorismo. Era la più noiosa fra le tue amicizie. Ogni tanto se ne usciva con qualche battuta morbosa e tu fingevi di ridere. Era così imbarazzante…

7Anche questa foto è inclusa nell’album che ti ha lasciato Sandro. Non ci hai ancora fatto caso.

8Mah…

9Si era sotto la costellazione del Leone e al mattino la Luna si trovava a 2,01 gradi nel segno dei Pesci. Consultare le effemeridi per quanto riguarda gli altri aspetti. Es: congiunzioni, opposizioni, quadrature, ecc. ecc. Poi tira le tue conclusioni.

10No, infatti.

11Personaggi assurdi, davvero. Uno di loro è lo spacciatore che ti riforniva abitualmente.

12Lo spacciatore che ti riforniva abitualmente.

13Te lo racconterà a voce fra qualche tempo.

14Francesco smentisce. Non è mai andato a trovarlo; in quel periodo lo aveva già lasciato.

15Più che Miller a te sembra il Kerouac più becero. Quello degli ultimi romanzi, per intenderci.

16Cose del tipo: Immaginavo allora il suo culo aperto e una lingua – la lingua mia o di Sandro o anche la tua – che (…)

17Pensi all’Adamo ed Eva di Cranach; agli scatti di Larry Clark; alle ombre di Kokoshka e compagnia bella: tutti questi espressionisti noti-ma-non-troppo dallo stile simile e dalle simili ossessioni. Pensi a una insegna lampeggiante. Chissà perché.

18Sette volte su dieci, quando si parla anzi si scrive di videocamere, si scrive di “occhi impassibili.”

19Cosa ti frega delle motivazioni?

20Ci andrai fra pochissimo. Presto il Museo Nazionale di Arte Moderna acquisterà l’opera e gli darà un titolo così insulso che l’effetto sarà quasi poetico.





Gabriele Galloni è nato a Roma nel 1995. Ha pubblicato tre raccolte di versi. Autore e ideatore per la rivista Pangea della rubrica “Cronache dalla Fine – dodici conversazioni con altrettanti malati terminali”. Suoi testi sono apparsi su Nazione Indiana, Atelier, clanDestino, Yawp, Poetarum Silva.

“Lungo una baia di plexiglass”, un racconto di Gabriele Galloni per la sezione SPLIT di Pidgin Edizioni.