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Dall’altra parte del muro

Un cane per strada è un randagio, un uomo per strada è un barbone, una bambina per strada è solo una bambina.

Al bar uno scemo mette sempre la stessa canzone:

“Mi hai visto in piedi, da solo. / Sapevi per cosa ero lì. / Mi hai sentito dire una preghiera per qualcuno di cui potevo prendermi cura.”

I jukebox. Dovrebbero romperli tutti con una mazza.

Fuori continua a piovere; mentre finisco l’ultima goccia di cognac ecco la grandine.

“Qualcuno sa di chi è quella bambina?”

Nessuno risponde. Pensano che io sia un senzatetto, la maggior parte degli uomini e delle donne di P. lo è. Come si sbagliano.

Così ti porto a casa, per evitarti le influenze, l’insonnia, l’infarto.



“Troveremo i tuoi genitori,” te lo dico spesso, la speranza è importante. Ma sono giorni difficili, se vai in cerca di qualcuno potresti finire ammazzato. Quando ti ho trovata avevi un portafoglio in tasca. Tutti i tuoi documenti li faccio a pezzetti e li vuoto nel cestino. Il tempo passa e mi sono abituato a te, mi piace averti in casa. E poi oggi è il tuo compleanno, non si può sprecare un giorno così.

Ti passo un vestito, è di un giallo accecante, un trucco per renderti fluorescente. Ognuno ha la sua stella e io ho te. Con la lingua di un fazzoletto spazzi dal pigiama due punte di cenere, scarichi la pipì nel water e ti guardi allo specchio. Sei cresciuta male ma io ti amo lo stesso.

Gli invitati sono di coccio, per lo più gnomi, vasetti di lillà, chiocciole finte, la conchiglia a spirale è un inutile labirinto. Li metto tutti in cerchio, così ti vedono meglio. Nell’angolo più silenzioso: io, in rigido contegno, niente più di un’ombra, innocuo come un sasso.

“Bombobobomfadaengadengndegfadingadongding, Blue Moon,” c’è anche la tua canzone preferita.

“Stiamo bene io e te, vero?”

Sì, stiamo bene.

Le candele si spengono e sul tavolo c’è tutto quello che hai chiesto. Il primo desiderio è un muro senza chiodi. Il secondo un sacchetto di terra. Il terzo una coperta scura, ci nasconderai le braccia e le mani, fino alle unghie.



L’ombra ti chiede:

“È la prima volta che qualcuno ti vede da questa distanza?”

“Io e la scimmia azzurra ci guardiamo spesso negli occhi.”

“Io ti guardo ovunque.”

La scimmia azzurra è sdraiata sul cuscino, prende il sole, ti fissa, sguardo da zoo. C’è una specie di chiaroscuro in quelle biglie nere, una nube di pietà che mi dà sui nervi.

La scimmia dice:

“Prendimi, sorprendimi, carezzami come un cane, cantami una canzone.”

Sono geloso.



Più tardi, la cerchi: fili di capelli, resti di foglia, forse è caduta più in basso, non riesci a prenderla per la zampina. Strusci, sbatti, ti allunghi: ti verrà un livido. Sei molto arrabbiata; così entri in cucina, spezzi tutte le candele avanzate, strappi in quattro gli addobbi. Vorresti affrontare lo spazio, toglierti l’ossigeno, trovare una zolla. Rompi il sacco e la terra finisce sul pavimento. Ci vai sopra a piedi nudi, ti illudi che il concime funzioni anche per te ma non ti alzi di un centimetro. Qui a P. non cresce niente, né sui prati né dentro le case. Schiacci il naso contro il vetro, fai grandi salti, non vedi nulla. Le maniglie non le ho coperte, tanto non sai nemmeno a cosa servono. Il mondo rimane piatto, e il tuo è un’enorme scatola, traslucida di attenzioni.



Tasti il muro per cercare un rovescio: come te lo devo dire che: “Crescere non è andarsene di casa, è disegnare un perimetro, tagliare, mettere una mano dall’altra parte, vedere cosa riesci a strappare. Fuori non c’è niente di buono, perfino l’aria ti taglia la pelle. L’unico modo per salvarsi è scavarsi una cuccia.”

La fessura è una striscia sottile. Separa l’armadio dalla parete, una piccola lingua di vuoto.

Spingi con tutte e due le mani, insisti. Alzi il torace e ti infili dentro, ti fai spazio. Cambiano la qualità del respiro, le proporzioni; dimentichi la ferita, l’aria che entra ed esce dal tuo centro, caverna di foche monache, piccola apertura di grotta marina. Ritrovi fermacapelli, monete arrugginite, muffa di biscotto, ritagli; parti di te, senza impronte, senza tracce di umanità. Non è facile crearsi un varco, è sempre sporco un varco, e ti consoli di quello che hai dentro. È come prepararsi per il letargo.



La tua tana è la casa di un geco. Deposito di particelle incoerenti, porto franco di lerciume giornaliero. Tra una striscia di compensato e un’anta di legno ti stacchi le pellicine e i capelli, snodi i lacci, ti togli i pantaloni.

“Che fine ha fatto la ragazzina?”



Finalmente ti cercano. La stanza puzza di calce ed erba appena tagliata.



Ogni venerdì ti portano da un manichino biondo. E tu parli, parli. E lei parla, parla.

Ti dice che hai:

“Una forma di scissione.”

“In effetti. Ho trovato un altro posto dove andare.”

“C’è una cura farmacologica.”

“Stia tranquilla, lì non mi vede nessuno.”

La signora del venerdì non ha capito da che parte del muro ti trovi. Parla, scartando intrecci d’infanzia e sacri principi. Lei sa bene come entrare dentro, aprire scatole, chiuderle, spostarle. Solo che lo fa dal lato sbagliato. Non ha mai forzato l’angolatura, la virgola, quel morbido cunicolo attraversato dal vento. Ci dev’essere uno strappo, una goccia di sangue. Lei non la vede. Hai coperto le tracce troppo presto; hai sempre odiato il rosso. Non è come la cioccolata, non basta sfregarlo con l’acqua. Quando sporca le lenzuola non va più via.



La tua nuova casa è un dormitorio sul mare.

Che fine ha fatto la ragazzina?

Prego signora, favorisca il biglietto:

“Sono andata dall’altra parte del muro, insieme alla scimmia azzurra, agli elastici, ai grumi di polvere, alle perline colorate, a tutti i resti che non sarete più capaci di trovare.”

Ma io so che lì, raggrinzita nel buio, sporca di polvere, ti senti enorme.

E c’è anche la tua canzone preferita: “Bombobobomfadaengadengndegfadingadongding, Blue Moon.”

E il mio orecchio che ascolta ogni tuo soffio, gli scricchiolii del cuore, la fessura rovesciata, l’antro di legno in cui nascondi la faccia, nascosta dai capelli, coperti dalle mani.



“Adesso non sono più solo

Senza un sogno nel mio cuore

Senza un amore.”



Sempre tuo,

dall’altra parte del muro.






Martina Tiberti è autrice teatrale e musicista. Fa parte delle compagnie teatrali Un rigo sì e rigo no e I binari di carta. Dal 2015 ad oggi ha scritto e portato in scena quattro drammaturgie: “Con la bocca piena di spille”, “Tape#51, Kerouac in scena”, “Le coup, il suolo ti farà vacillare” e “È ita”. “Con la bocca piena di spille” è stato selezionato a partecipare alla rassegna “Exit, Emergenze Teatrali” del Teatro dell’Orologio di Roma (2017). Nel 2019 ha riadattato per il teatro la raccolta di racconti Guardavamo gli altri ballare il tango della scrittrice Giulia Caminito e ha scritto la drammaturgia e il libretto dell’opera lirica La bestia dentro del compositore romano Francesco Leineri. I suoi racconti sono apparsi anche nelle riviste online L’Inquieto e LetterateMagazine. Nel 2014 ha creato 7Tracks un blog dove scrive approfondimenti e recensioni in ambito musicale.

“Dall’altra parte del muro”, un racconto di Martina Tiberti per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni