Triangulum – Masande Ntshanga

Traduzione di Stefano Pirone

Nel 2040, l’Agenzia spaziale sudafricana riceve un misterioso pacco contenente un libro di memorie e una serie di registrazioni digitali di una mittente anonima che sostiene che il mondo finirà entro dieci anni. Queste memorie partono dall’adolescenza della narratrice, una ragazza apparentemente alla deriva, alle prese con visioni improvvise di una “macchina” fluttuante e un padre malato che non si è mai ripreso dallo shock della perdita della moglie. Quando tre ragazze del posto scompaiono nel giorno del compleanno di sua madre, la narratrice si convince che ci sia una connessione con la “macchina” e che anche sua madre sia stata rapita. La ricerca di una risposta su cosa sia accaduto veramente, e sul motivo delle proprie visioni e della propria diversità, la accompagna dall’adolescenza all’età adulta, dai quartieri popolari di una cittadina a una megalopoli futuristica, da un laboratorio sotterraneo che effettua esperimenti su persone indigenti a una rete di eco-terroristi.
Masande Ntshanga, con la sua prosa poetica e la sua immaginazione, ha realizzato un’opera unica, che mescola elementi del romanzo di formazione, fantascientifico e del mistero, coprendo 40 anni di storia del Sudafrica, dal crollo del sistema delle homeland instaurato dall’apartheid fino a un futuro prossimo del 2040 su cui incombono disastri ecologici.

18,0036,00

Descrizione

Potrai ordinare il libro anche su Bookdealer dalla tua libreria preferita.

Cerchi l’ebook? Lo troverai in tutti gli store digitali!

Hai una libreria e ti interessa ordinare questo libro? Contattaci all’indirizzo ordini@pidgin.it oppure ordina il libro su Librostore.

 

Dicono di questo libro:

“La storia violenta e affascinante del Sudafrica, dal colonialismo all’apartheid, e le recenti lotte per venire a patti con questo passato fanno da ricco sfondo a questo romanzo inquietante e avvincente che riporta alla mente “2666” di Roberto Bolaño. Un romanzo di incredibile immaginazione che si dispiega gradualmente in una meditazione meravigliosamente realizzata sulla crescita, sull’eredità e sugli effetti del progresso tecnologico sul mondo che ci circonda”. – Booklist

Triangulum, senza alzare la voce e con ipnotica poesia, crea un nuovo genere letterario che mixa fantascienza, romanzo di formazione, e thriller.” – Sara Catalano, Galápagos

“La trama è un concentrato di momenti d’azione, intrighi e profonde riflessioni su come la nostra società sia plasmata dal controllo, dalla tecnologia e dai residui dei colonialismo. Il tutto elaborato con uno stile davvero unico. Masande Ntshanga, infatti, può essere poetico, descrittivo e tecnico allo stesso tempo.” – Stefania Grosso, The Bookish Explorer

“Con uno stile intrigante e avvincente Ntshanga ricostruisce con sapienza una storia complessa, stratificata su diversi livelli narratologici e arricchita da una varietà di tematiche sorprendenti che difficilmente trovano spazio all’interno del panorama letterario coevo, come la condizione di vita nel Sudafrica post-apartheid, l’identità, di genere, la sessualità, la salute mentale, la distruzione ecologica, la minaccia aliena e la discriminazione razziale.” – Chiara Scatena, Palin Magazine
“Masande Ntshanga è riuscito a costruire un ingranaggio complesso che rompe i confini tra i generi, attraversando la fantascienza afrofuturistica, la distopia, il romanzo di spionaggio, il mistero e, da una certa angolatura, l’autofiction. Un’opera che merita il giusto tempo per essere letta e assaporata, perfetta per le lunghe sere invernali.” – Adele Akinyi Manassero, Afrologist
“Triangulum mette insieme in modo brillante una storia a più livelli, piena di temi profondi e che fanno riflettere, tra cui il Sudafrica post-apartheid, le questioni legate all’identità, alla fluidità di genere, alla sessualità, alla genitorialità, alla salute mentale, alla distruzione dell’ecologia terrestre, agli esseri extraterrestri e alle atrocità storiche del Sudafrica dell’apartheid, della segregazione e della discriminazione razziale”. – Afrika Is Woke

“Ntshanga crea una parabola fantascientifica afro-futurista attraverso la quale possiamo decodificare l’ancestrale”. – Brittle Paper

“Questo romanzo eccentrico e futuristico lambisce i confini della fantascienza… Ntshanga scrive in modo convincente dal punto di vista della sua narratrice mentre avanza verso l’età adulta. I suoi sforzi per dare un senso alla stranezza e all’imprevedibilità del suo mondo e delle sue esperienze ne fanno un’emozionante storia di formazione”. – Publishers Weekly

“[…] il libro affronta questioni sempre più urgenti nel mondo globalizzato: lo scisma dell’identità, la posizione sociale, le battaglie civili, l’emarginazione, la strisciante questione razziale, il capitalismo di contro al progresso tecnologico e l’alienazione dell’individuo. È anche un’esortazione a riconsiderare la nostra vita e soprattutto nel modo che abbiamo di rapportarci con il pianeta.” — Elisa Raimondi, Leggere Distopico

Informazioni aggiuntive

Scritto da

Collana

Tradotto da

Pagine

300

Formato

Cartaceo, copertina morbida, 15 x 21 cm

Anno di pubblicazione

2023

Seleziona l'offerta

Triangulum, Triangulum + shopper triangoli, Triangulum + Il reattivo + shopper triangoli

Incipit

(Incipit del primo capitolo di “Triangulum” di Masande Ntshanga. Traduzione di Stefano Pirone.)

4 ottobre 1999

Avevo quattordici anni quando per la prima volta mi soffermai davanti allo specchio accanto al computer di casa e mi toccai, venendo due volte, per non pensare al rapimento di mia madre.

Non l’avevo mai fatto davanti a uno specchio e non ero mai andata oltre quel numero, ma mi dissi di smettere quando Tata si svegliò tossendo. Allora sgattaiolai in camera mia e ascoltai lui che usciva di casa. Più tardi avrei saputo che era andato in ospedale.

Verso mezzanotte, la nostra porta d’ingresso si aprì di nuovo e Tata rientrò, portando con sé la sua malattia.

Aprii la porta della sua camera da letto per far uscire il fumo. «Lo stai facendo di nuovo» dissi.

«Vai a dormire».

«Non mi sento bene».

Si vedeva che non era sicuro se fossi io o Mama. «Sono io» dissi.

«Allora dimmi che cos’hai». 

«Non so cosa sia».

«Allora torna a dormire».

Mi voltai e andai a letto.

Sentivo ancora l’odore del fumo di sigaretta che trapelava dalla sua stanza. Mi misi a letto, misurando il respiro per non fargli capire che ero sveglia, aspettando che si addormentasse.

Sdraiata supina, guardavo il soffitto e pensavo a come, quarantadue anni prima, l’Unione Sovietica avesse lanciato in orbita lo Sputnik I, il primo satellite artificiale del mondo. Non che a Tata sarebbe importato. Aveva una laurea, ma era in agraria, conseguita in un college specializzato a metà degli anni Settanta.

Chiusi gli occhi, sentendo freddo con le lenzuola appallottolate dietro di me, e mi ricordai di una volta in cui avevo provato un dolore simile al suo. Almeno in termini di grandezza.

Avevo nove anni quando caddi da un’altalena scricchiolante in un angolo di Bhisho Park. Avevo visto una colonna di nuvole di pioggia correre verso di me e, pochi istanti dopo, mi ero ribaltata e avevo colpito il suolo con la parte sinistra della testa. Per un minuto non vedevo più, una condizione che il medico dell’ospedale locale definì come “fotocheratite”. Successe mentre ero sdraiata sulla schiena nel parco, incapace di muovermi, e fissavo direttamente il sole mentre la testa si rovesciava e tutto diventava buio.

Era il 1994.

In seguito, Tata raccontò spesso questa storia ai suoi amici, soffermandosi sul fatto che non avessi mai pianto – un fatto che il medico attribuì allo shock. Ricordo ancora che quella mattina ero in bagno e tremavo mentre Mama puliva il taglio sulla fronte e cercava di medicarlo con una vecchia maglietta presa dall’armadio di Tata. Poi mi portarono all’ospedale e mi accompagnarono per un lungo corridoio illuminato a intermittenza da una luce fluorescente. Mi misero sette punti, mi prescrissero 500 milligrammi di paracetamolo e mi diedero una settimana di riposo da scuola.

Non avevo una commozione cerebrale, ma per i primi giorni stare a casa mi parve diverso. I miei genitori si aggiravano attorno a me, stagliandosi contro la luce del soffitto, con le loro ombre che mi fornivano cure, Vicks VapoRub, minestrone e cuscini quadrati. Durante tutti i loro sforzi e tra una febbre e l’altra, rimasi sdraiata sulla schiena, sentendo le loro voci come se provenissero dall’interno di un bunker – un’eco rimbombante che precedeva la presenza di ciascuno nella camera da letto o nel salotto, dove dormivo o stavo seduta ad assorbire le immagini sfocate della televisione senza audio.

Mama, consulente all’Università di Fort Hare, era stata addetta alle comunicazioni per il governo nazionale e le piaceva lasciare il televisore acceso sul telegiornale. Quel sabato, quando la mia vista guarì, passai il pomeriggio alternandomi tra sonno e veglia davanti a diversi notiziari, ridestandomi con trasmissioni di conflitti in paesi di cui non riuscivo a pronunciare il nome. La sera Mama mi raggiunse sul divano, mi accarezzò il collo e mi tastò la fronte, poi si mise a guardare le esplosioni che si trasformavano in nuvole di polvere e fuoco insieme a me, noi due in silenzio.

Mama scomparve l’estate successiva e quattro anni dopo Tata tornò tossendo da un altro ospedale in un’altra città. Spesso mi chiedevo cosa ci legasse quel pomeriggio in cui guardammo insieme lo spargimento di sangue a Mogadiscio – se fosse stato allora che avevo ereditato la macchina, come avrebbe suggerito in seguito un medico, anche se non sembrava saperne molto – ma sentire il suo tocco sulla ferita l’aveva lenita. Successivamente, dopo che se n’era andata, avrei cercato di evocare di nuovo quella stessa sensazione con mia madre, richiamandola in salotto con le notizie sui disastri che si era lasciata alle spalle sulla Terra.

Con Tata addormentato, aprii gli occhi e inspirai di nuovo, assorbendo il ritrovato calore delle mie lenzuola. Non lo sentivo più tossire, nella nostra casa era calato il silenzio totale, come se noi due fossimo stati seppelliti in una capsula e spediti nello spazio profondo a congelare.

Forse mandati in missione per trovarla, pensai; ma come poteva saperlo, lui?

Poi cominciai ad assopirmi anch’io, pensando a come lo Sputnik aveva resistito per tre settimane dopo che le sue batterie si erano scaricate. Il satellite aveva fluttuato in solitudine nel buio per due mesi prima di ricadere sulla Terra, e questo lo presi come una prova del fatto che le cose alla fine ritornano.
Compresa Mama.