Cloris: storie per i tarocchi – Volume 2. Arcani maggiori XI-XXI

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Data di pubblicazione ufficiale: 2 maggio 2024

Il Sole è una faraonica attrazione di un parco giochi in cui due fratelli sprigionano e fondono le loro forze uguali e contrarie; la Luna è un volo onirico su una terra sommersa da acqua, sabbia e catrame, alla ricerca di germogli di vita; l’Appeso sono una guerriera e uno sciamano bloccati in un ballo eterno sotto lo sguardo di una vecchia cenciosa e una lepre orba; il Diavolo è il gestore di una sala giochi a cui una ragazza vuole vendere l’anima in cambio della vendetta su chi ha ferito il fratello.

Il secondo volume di “Cloris: storie per i tarocchi”, antologia a cura di Vargas, raccoglie undici autori e altrettante novelle basate sugli arcani maggiori dall’XI al XXI, in cui la simbologia custodita da ciascuna carta prende forma in narrazioni ancora più fantastiche e visionarie, storie che abbandonano il mondo materiale per navigare in oceani esoterici e irreali per i quali non esistono mappe. Queste visioni surreali sono instillate nella carta da undici penne diverse, ciascuna caratterizzata da stile e voce personalissimi: Alessandro Mazzi, Diletta Crudeli, Uduvicio Atanagi, Simone Lisi, Erica Gigat, Emanuela Cocco, Simone Marcelli Pitzalis, Francesca Matteoni, Mariana Branca, Andrea Betti e Bartolomeo Cafarella. Il volume include undici illustrazioni a colori a opera di Stefano Pirone.

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Descrizione

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Informazioni aggiuntive

Scritto da

Collana

Formato

Cartaceo, copertina morbida, 12,5 x 19,5 cm

Pagine

272

Anno di pubblicazione

2024

Incipit

(Incipit della novella “Il gioco della lepre” di Diletta Crudeli)

Il gioco della lepre

Riesce a riconoscere alla perfezione quando la musica sta per ripartire da capo. Malgrado sia apparentemente senza interruzioni, c’è un attimo in cui è in grado di percepirne il distacco dal flusso. In quell’attimo le sembra di potersi liberare. 

Lo stomaco sobbalza, pressa all’altezza dello sterno. Si sente strappare qualcosa e nelle vene il sangue è fragile come carta di riso. 

È abbastanza sicura che anche Fasmi possa percepirlo. Quando la musica sta per interrompersi, le si stringe più forte ai fianchi, le ficca le unghie sotto le costole.

«La senti anche tu, vero?»

Non sa da quant’è che non gli rivolge parola. Forse venti cicli di musica, che non sono tanti, ma comunque troppi perché li hanno lasciati passare ininterrotti, senza provare a fare altro se non ciondolare attaccati sulla pista da ballo. Oscillano come le ossa che i contadini appendono ai rami. Per scacciare gli uccelli ma per sicurezza anche i demoni. 

Fasmi è rigido e smuove la testa, si volta verso i finestroni e finge di osservare il deserto fuori dal salone, la distesa di sabbia e sterpaglie battuta dalle lune e dalle costellazioni appuntite. 

«Non capisco di che stai parlando».

Lei lo fissa e per dispetto gli solletica il naso con una ciocca dei lunghi capelli biancastri. Fasmi sbuffa e cerca di allontanarsi, ma la forza che li tiene bloccati non lo permette. Vengono di nuovo spinti l’una verso l’altro, e questa volta le unghie di Fasmi premono ancora più in profondità. 

«Smettila, mi fai male». 

Fasmi emette un ringhio basso, che si disperde subito nelle note della musica. È la prima cosa che Melle ha notato, quel giorno, che adesso sembra risalire a secoli prima. Il ringhio di Fasmi, i suoi suoni bestiali e le sue grida da rapace in quel luogo si perdevano, si smussavano. La musica, che al tempo ancora non conoscevano, sembrava insolita quando incontrava quei versi.
Li rendeva fiacchi, mollicci come ostriche e a Melle un’ostrica andrebbe volentieri in questo momento. 

«Comunque sì» soffia Fasmi e allenta la presa «sento sempre quando sta per finire».

Melle è sorpresa. Non tanto perché l’ha ammesso, ma perché ha ascoltato la sua richiesta di non farle male. All’inizio Fasmi sfruttava la vicinanza per artigliarla, morderla all’altezza della gola, pestarle i piedi. In effetti, anche lei ci aveva provato. Ma le ferite si rimarginavo alla fine di ogni ciclo di musica e i movimenti erano poco fluidi così abbracciati. Si erano annoiati presto, per quanto piacevolmente stupiti dalle guarigioni miracolose. 

Continuano a ondeggiare e Melle sposta le braccia addormentate sul petto di Fasmi. Gioca con un bottone della sua giacca. Ormai conosce ogni dettaglio dell’altro. I vestiti ruvidi, che odorano di salvia. I capelli neri che tiene legati in un ciuffo malconcio con un nastro rossastro. Fasmi è più alto di lei e per fissarlo negli occhi deve mettersi in punta di piedi. Ha gli occhi gialli, che sembrano malati. Melle sa che sono di quel colore perché Fasmi è uno di quelli che può vedere anche i confini tra i mondi, può viaggiarci in mezzo. Gli occhi di Fasmi si sono bruciati e lui ha smesso di rattopparli. 

Tasta il corpo dello sciamano in cerca di dettagli, ormai da troppo tempo e si è annoiata pure di quello. Eppure c’è qualcosa di nuovo che la spaventa, ma questo a lui non lo dice. Gli odori, la stoffa, il peso delle mani di Fasmi sui fianchi, le sembrano effimeri, tutti i gesti paiono dispersivi. È una sensazione che associa in parte alla noia che la tiene in piedi per dispetto, e forse all’esasperazione che potrebbe tramutarsi in follia. Non le piace. È qualcosa, la mancanza di odore, di tatto, che non ha mai provato.

Con un saltello si mette in punta di piedi e gli lecca una guancia.

«Oh!»

Lui prova ad allontanarla, tenta di afferrarle la gola, ma Melle conosce bene i tempi dell’altro e si scansa giusto in tempo. 

«Pensavo che avessimo superato questa fase» dice lui pulendosi la guancia sulla spalla «eppure sei ancora così stupida da provare a mordermi».

Melle non lo ascolta. Non ha sentito niente. Il corpo di Fasmi, che odorava di salvia, e quando provava a morderlo sapeva di sale, non ha sapore. Melle trema: forse, bloccato in quel loop infinito, il suo corpo si sta disintegrando. La musica che smussa la materia ha smussato anche i suoi sensi, e la realtà. O forse ha a che fare con l’altra cosa, quella che la appesantisce da una vita. Si guarda sopra la testa, ma a fissarla c’è solo il soffitto scrostato della sala da ballo.

Ci sono crepe innervate in una lampada di specchi, qualche festone ancora agganciato sbilenco, di un tenue verde acqua appassito, mura vecchie e sbiadite, sedie abbandonate a terra, altri festoni sdruciti. La sala appartiene al Tempoprima, quando la luna era una soltanto e nessuno sciamano dagli occhi gialli poteva trascinarne un’altra da una dimensione lontana. 

Oltre le finestre immense il deserto altrettanto vasto e piatto, sabbia sfinita e calpestata. Un luogo che li ha gettati inaspettatamente in quella trappola assurda e fuori luogo. 

«Ancora non riesco a spiegarmi perché c’è una vecchia sala da ballo in mezzo al deserto».

Fasmi sbuffa e i suoi occhi gialli luccicano divertiti. 

«Pensavo avessimo superato anche questa fase» dice. «Sempre più stupida».

Il deserto è fatto di cartone, lo è diventato da quando sono rimasti chiusi lì dentro e la musica ha cominciato a suonare. Melle fa per aprire bocca, ma non sa come formulare quello che vuole dire. Forse però è davvero giunto il momento di parlarne con Fasmi. Fissa di nuovo il soffitto e socchiude gli occhi alla vista dei loro corpi stretti riflessi negli specchi del lampadario. 

«Proviamo di nuovo a parlare alla vecchia?» chiede invece. 

«Non mi va».

Doveva aspettarselo. L’ultima volta Fasmi ha persino provato ad aggredirla, la vecchia. Ma non appena ci ha provato sono stati di nuovo sbalzati in posizione al centro della sala, stretti e costretti a ciondolare per l’ennesima volta a ritmo di musica. 

«Dillo che è perché non vuoi separarti da me neanche un secondo».

«Bel tentativo. Tutto inutile, questa roba con me non funziona».

Non funziona, ma di sicuro gli fa comodo starle addosso. Stare stretti li fa sentire meno stanchi, questo Melle lo pensa sul serio. Possono muoversi soltanto verso la vecchia. O verso la lepre. Ma la lepre le dà i brividi e non vuole neanche pensarci. Ha notato che anche Fasmi cerca di non guardare nella direzione in cui si trova l’animale, al lato opposto della vecchia sporca. E il fatto che Fasmi sia reticente al riguardo è indicativo: nelle sue avventure da sciamano si è bruciato le retine, reso le ossa cave, forato la testa con un punteruolo e ha persino mangiato carne umana, senza battere ciglio, ma la lepre è diversa. 

Fuori posto.

«Va bene» dice Fasmi «magari in questo modo il tuo sangue smette di erodersi come un osso vecchio».

Insieme si voltano verso la vecchia e finalmente i loro corpi si separano. Fasmi riesce persino a stirare la schiena e crocchiare le dita, anche se Melle nota che trema appena. Poi, trasportati dalla forza invisibile che ormai conoscono come un dato di fatto all’interno della sala, si muovono verso la donna. 

Seduta con i gomiti poggiati sulle ginocchia, non alza gli occhi su di loro fino all’ultimo istante. È così sporca, polverosa e insaccata nel suo vestito di tela marrone che all’inizio nemmeno l’avevano notata. 

«Come usciamo da questo posto, maledetta stronza?»

Melle chiude gli occhi e sospira. Non che lei avesse pensato di poter formulare una frase migliore, ormai le hanno provate tutte. Hanno provato anche ad afferrarla, sfiorarla o avvicinarsi un altro po’, inutilmente. In ogni caso la vecchia risponde come sempre ha risposto:

«Posso strapparti un filo dalla mia veste, se vuoi. Posso strapparlo con i denti».

Ha la voce di un demone sotto mentite spoglie e quando parla mette in mostra i denti bianchi, appuntiti, tutto il contrario del suo corpo smunto. Fasmi è esausto, stufo fino al midollo. 

«Vattene all’inferno». 

Si volta e vengono di nuovo spinti in traiettoria sulla pista, come se una mano gigante li avesse spazzati al punto di partenza. Non hanno nemmeno il filo, questa volta.