Tranquillità assoluta – Antonio Francesco Perozzi
DISPONIBILE DAL 28 GENNAIO 2025
Due uomini pianificano il furto di una partita di cellulari di marca, ma per non farsi scoprire dovranno occuparsi delle lucciole che vivono sotto la loro pelle; da un enorme tubo pieno di amianto comincia a riversarsi in mare un liquido neroverde, e l’unica speranza sono degli strani individui che camminano sull’acqua e che il paese guarda con sospetto; i ragazzi di un centro sociale si battono per abolire la festa religiosa locale, in cui viene fatta rotolare una gigantesca palla di sterco, dopo che questa ha schiacciato a morte un loro amico; la spesa al supermercato fa affiorare le tensioni per questioni economiche di una coppia, esacerbate dai costi di smaltimento delle esuvie che si strappano dal corpo.
I protagonisti dei dieci racconti di “Tranquillità assoluta” cercano di liberarsi dal pantano delle loro vite in periferie immobili, da quella staticità anestetizzante che assimila e normalizza anche ciò che appare più surreale. Ma la perturbazione di quegli squarci di irrealtà persiste subdola, striscia tra i piedi, per ricordare agli animi irrequieti la possibilità di una metamorfosi.
Antonio Francesco Perozzi, con una capacità unica di rappresentare la marginalità e di integrare il grottesco nel quotidiano, dipinge personaggi vividi e immersi in realtà stranianti che riflettono al meglio il nostro mondo proprio nei dettagli che le differenziano.
18,00€
Dal 28 gennaio 2025
Descrizione
Puoi ordinare il libro anche su Bookdealer dalla tua libreria preferita. Cerchi l’ebook? Lo trovi in tutti gli store digitali!
Ascolta la playlist di Antonio Francesco Perozzi abbinata al libro: https://open.spotify.com/playlist/
Informazioni aggiuntive
Scritto da | |
---|---|
Collana | |
Pagine | 182 |
Formato | Cartaceo, copertina morbida, 12,5 x 19,5 cm |
Anno di pubblicazione | 2025 |
Incipit
(Incipit del racconto “Mal di testa”)
Praticamente Coman aveva scoperto dove tenevano gli I-Phone. Me l’aveva detto una sera sul Cotral, col braccio sinistro appeso e il bicipite che oscillava per le buche della Tiburtina. Si copriva le labbra col dorso della mano e ricordo bene quanto fossero infuocate le sue lucciole, quella notte: la fronte arancione, la luce che batteva sulla scritta fermata prenotata.
Forse gli era arrivata voce di quando mi ero infilato una micro-sd da 256 gb sotto la lingua: una storia così era impossibile che non si diffondesse. Ogni tanto mi capitava ancora di incrociare qualcuno, in magazzino, che mi diceva «Grande» o «Come cazzo t’è venuto in mente?» Ma quella di Coman sembrava roba seria, e a parte la sd io mi ero limitato a qualche Blu-Ray nelle mutande, o a pacchi di Fonzies aperti tra uno scan e l’altro.
Gli dissi di sì, comunque. Ci beccammo la prima volta da Cesare, a Guidonia, nella saletta sul retro. Coman beveva Peroni da 66 come acqua e quando lo raggiunsi, alle sette, se n’era già sparate due. Non avevo mai avuto a che fare chissà quanto con lui, capitavamo spesso in reparti diversi. Mi spiegò che era dentro da tre anni. Non facevo fatica a capire come uno della sua stazza fosse in grado più di altri di sopportare certi ritmi. Era dentro da tre anni e qualcosa ogni tanto se lo portava a casa: dischi, cavetti, roba così. Ma si era rotto il cazzo – diceva, usando una sola zeta – voleva di più.
Il coglione rideva mentre mimava l’azione di infilarsi cose sotto la lingua, batteva il palmo sul tavolino di metallo e spingeva il collo della Peroni nell’esofago. Con la birra che calava, io vedevo le sue lucciole agitarsi e micro-masse di luce picchiettargli la fronte dall’interno. Pure Cesare aveva un bel colorito arancione quel giorno. Lasciò la mia Peroni sul tavolo con quattro ditate sul vetro.
«Spiegami ’sta cosa».
Coman non aveva un piano vero e proprio, di fatto tutto il suo entusiasmo si basava sulla scoperta del “posto degli I-Phone”. Si fermò dopo avermi fatto capire dov’era, mischiando il suo italiano sputato con frasi in rumeno. Poi si appoggiò alla sedia, una mano ancorata alla bottiglia, l’altra a grattarsi la guancia ispida. Portava sempre quella felpa Givova coi lacci tagliati.
Il problema ovviamente era il metal detector. Quando cominciai a spiegare il mio punto di vista capii definitivamente che Coman il piano se l’aspettava da me, che la storia della lingua doveva avergli dato l’impressione che fossi un genio del crimine, o non so che. Appoggiai anch’io la schiena e iniziai a inghiottire lunghi sorsi di birra tra una frase e l’altra. Coman si mosse solo per ordinare ancora, con un cenno del mento e dell’indice che Cesare coglieva senza neanche rispondere.
Il cd non suona. Questo è il fatto. È di plastica e se lo togli dalla custodia, solo il dischetto, puoi tranquillamente infilartelo sotto le palle, spiegai: quando la guardia ti gira intorno con quel coso rettangolare non si accorge di niente. E al massimo può chiederti di aprire la felpa, rivoltare le tasche; di certo non si mette a smucinare in mezzo alle palle. Sollevai la birra e sentii le lucciole ammassarsi nella parte superiore del cervello: il silenzio di Coman mi diede la sensazione che non avesse capito una mazza. Allora aggiunsi che la sd è piccola, invece, e te la puoi mettere in bocca: non importa se suona, perché la guardia in faccia non ti controlla, a meno che non becchi quella pignola. Ma per un I-Phone come fai? Per dieci I-Phone, anzi. Poggiai la bottiglia sul tavolino, senza staccare la mano. Trasformai un rutto in un soffio.
«Troviamo un modo», Coman si piegò in avanti, i lacci monchi si tesero appena sopra il tavolo.
Mi raccontò che aveva sentito di un tizio che durante il turno ammucchiava i telefoni in un angolo, un po’ alla volta, poi prima di staccare se li metteva dentro le scarpe.
«Sì, ma quanto tempo fa?» agitai la mano davanti al petto. Non lo sapeva, ma ero sicuro al 100% che fosse prima delle lucciole. O al limite che fosse una cazzata. «Ci vedono», picchiettai l’indice sulla tempia e avvertii un piccolo grumo di lucciole spostarsi verso il centro della fronte, poi ridistendersi di lato.
«Le spegniamo», incrociò le braccia.