Junx – Non basterebbe una notte – Tshidiso Moletsane

DISPONIBILE DAL 24 SETTEMBRE 2025

 

Libro vincitore del Sunday Times Literary Award

 

Traduzione di Stefano Pirone.

Non basterebbe una notte per contenere tutta Johannesburg con le sue baracche di lamiera, i ragazzini che giocano tra vetri rotti, i sogni interrotti di chi vive in una township. Non basterebbe una notte per bere abbastanza vodka da annegare i pensieri intrusivi. Non basterebbe una notte per parlare di Dio, dell’apartheid, di ragazze che sanno di miele e di uomini sfregiati nelle risse. Non basterebbe una notte per raccontare tutte le verità di Ari, l’amico immaginario con le ali, la pelliccia e la lingua tagliente. Non basterebbe una notte per abbracciare tutti gli amici e partecipare a tutte le feste. Non basterebbe una notte per prepararsi al caos che scoppierà.

Junx – Non basterebbe una notte è l’epopea febbrile e vertiginosa di un anonimo narratore, in cui Tshidiso Moletsane, con una lingua che sa di strada e sogni bruciati, racconta di un’unica notte che sembra al tempo stesso sfuggente e infinita: troppo breve per viverla tutta, troppo lunga per uscirne illesi.

17,00

Dal 24 settembre

Descrizione

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Informazioni aggiuntive

Scritto da

Tradotto da

Collana

Formato

Cartaceo, copertina morbida, 15 x 21 cm

Pagine

130

Anno di pubblicazione

2025

Estratto

(Incipit di “Junx – Non basterebbe una notte” di Tshidiso Moletsane, traduzione di Stefano Pirone)

 

All’inizio è tutto abbastanza normale. Sono sul letto nella mia stanza e fisso il soffitto. Fuori c’è buio. È piuttosto tardi, forse mezzanotte, direi. C’è totale silenzio, se si escludono i suoni dei grilli e delle auto che passano in lontananza. Riesco a sentire i ratti che corrono sul soffitto. Mi guardo attorno nella stanza in cerca di un libro decente da leggere o di un taccuino su cui scrivere; mi basta qualsiasi cosa, davvero. Controllo i miei cassetti e sotto il letto – non trovo un accidente.

La finestra solitaria della mia stanza è coperta da un lenzuolo di cotone con macchie marroni causate dalla trascuratezza e dalla polvere e da Dio solo sa cos’altro. Steso a pancia in giù sul letto, affondo la faccia in un cuscino polveroso. La federa bastarda non viene lavata da settimane e il cuscino è così sottile che sto praticamente dormendo su un asciugamano piegato.

Una sorta di formicolio mi avvolge tutto il corpo. Una sensazione inquietante. La ignoro per un attimo ma continua a crescere, intensificarsi e stringersi finché non sono costretto a scrollarmela di dosso. Mi dimeno e piego gli arti, mi gratto il petto e le cosce, ma la sensazione non va via. Rotolo giù dal letto e atterro sulle ginocchia; mi alzo e mi do una sistemata, faccio scricchiolare il collo e le nocche. Per qualche motivo sento la necessità di muovermi, come uno squalo, quasi. Cerco di aprire la porta ma è chiusa a chiave. Devo scrollarmi questa sensazione di dosso, fratello. Stendo gli arti e provo a fare qualche sollevamento. Poi faccio sei jumping jack, giusto per distrarmi.

«Ari!» chiamo ma non sembra essere qui, e ho la sensazione che qualcosa non quadri. Percepisco qualcosa, una presenza spettrale.
E poi, all’improvviso, la parete comincia a creparsi. Mi avvicino a essa e faccio scorrere la mano lungo la frattura. Pezzi di muro cadono sul pavimento mentre la crepa si frantuma e si allarga ancora. Quindi, la singolare presenza si manifesta.

Dietro la crepa vedo un occhio grande quanto il mio torace. Cerco di allontanarmi ma mi blocco come se fossi tenuto fermo da una calamita. La presenza comincia a emettere un sordo ronzio, che si propaga in vibrazioni lungo tutto il mio corpo. La mia testa comincia a scivolare all’indietro, intontita, la mente vortica incontrollabile in una coltre di spossatezza. Si contorce ancora più indietro, come se collo e corpo pendessero da un cappio. Vengo sopraffatto da questo profondo senso di desolazione e perdita – una smania intensa, la sensazione di un mondo capovolto, del passato che collide con il futuro. Mi sento così incredibilmente piccolo e insignificante sotto lo sguardo fisso della presenza, ma anche meno spaventato adesso; sono come ipnotizzato, più che altro. Come se fossi rotolato oltre la superficie del pianeta e fossi caduto sulle nuvole. Poco dopo, sento come se stessi viaggiando al di là della galassia più remota, lontano dalle leggi che governano le cose terrestri. Atterro nelle budella dell’universo. Provo una sensazione così completa di irrimediabile collasso che mi chiedo: È questo che si prova quando si muore? Poi mi sveglio.

«La parola bisessuale è riservata soltanto alle donne, in realtà. Gli uomini non possono essere bisessuali. Scopi una volta con un maschio e sei gay», dico.

«Ciccio, d’accordo al cento percento».

Sono in soggiorno a parlare con Ari. «E un giorno o l’altro dovrai fare i conti con la realtà. Non importa quante donne scopi o frequenti o sposi, la verità la conosci benissimo.
La conosciamo tutti».

«Ti piacciono i maschi», dice Ari. Scrolla le spalle e ci battiamo i pugni. Chiede: «Pensi che le butch abbiano peni fantasma?» Poi cala il silenzio.

«Stasera sarà incredibile. Davvero, non vedo l’ora».

«Incredibile». Ari canta la parola mentre rollo una canna. La accendo e comincio a lavorare sulla prossima. Faccio un lungo tiro e sento che mi si rannuvolano gli occhi. Comincio a sentirmi stordito; con le palpebre chiuse faccio un altro tiro di canna ed espiro con un sospiro.

Quando apro gli occhi vedo soltanto fumo, e un secondo dopo, ecco di nuovo Ari.

«Davvero, non vedo l’ora, Ari».

In sottofondo c’è Spiracle, una canzone di una cantante austriaca. Ari salta su e giù sul divano. Mi dice che è davvero elettrizzato. Attraversa la stanza volando per poi posarsi sulla mia spalla, il piccolo bastardo. Gli passo la canna e lui fa un tiro.

Ho conosciuto Ari quando avevo due o tre anni. Ari è il mio amico immaginario. È un tipo davvero interessante, credimi. È molto di più di un’allucinazione o il frutto della mia immaginazione o cose del genere. È piccolissimo – quando sta diritto, mi arriva circa alle ginocchia. È coperto da una pelliccia nera e ha delle macchie bianche sopra gli occhi e le zampe e la punta della coda. Non ha pollici opponibili quindi usa la coda per reggere e trasportare oggetti. Ha ali marroni e piumate con qualche tocco di bianco e chiazze gialle, verdi e arancioni. La sua apertura alare è di circa sessanta centimetri, o circa ottanta centimetri, o circa un centinaio. Non lo so. Non sono sicurissimo di cosa significhi “apertura alare”. Dovrei fare una ricerca.

«SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY», dice. 

«SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY», rispondo. 

SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY è un’enorme festa che si terrà stasera. È il party più grande di tutti e si tiene ogni anno a Braamfontein, a Johannesburg.

Braamfontein è un posto assurdo, oh. È la fine del mondo, credimi, e questa festa è un evento epocale. Cioè, non puoi immaginare nulla di più grosso.

Accendo l’altra canna e continuo a fumare. Ari ride e dice di essere fatto. È un bipede, ma occasionalmente cammina a quattro zampe. Ora che ci penso, in fondo non cammina poi tanto: lui preferisce volare. Porta collane di perline colorate avvolte strette attorno al collo, talmente strette che sembrano quasi parte della sua pelliccia – un po’ come i Masai in Tanzania o i Karo in Etiopia. Indossa una vecchia e sporca fascia gialla attorno alla vita. Il giallo è il suo colore preferito. Ha orecchie larghe e appuntite, del tipo che vedresti su un pipistrello, e un piccolo muso come quello di un procione o di uno scoiattolo.

Una falena batte sul soffitto. Ari non perde tempo e si lancia su di essa per mangiarla.

«SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY. SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY. SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY», recitiamo.

«SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY. SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY. SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY», cantiamo.

«SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY. SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY. SEXY-HONEY-SUPER-CHUBBY», saltiamo.