Al di là dell’orgoglio: crescere queer tra omofobia e self-hate
Non esiste l’“esperienza gay” universalmente intesa, ma si può tracciare una continuità tra i racconti di molti di noi e mi interessa fare alcune inferenze intelligenti rispetto a ciò che ho vissuto crescendo. Forse altri ragazzi omosessuali – e persone queer – leggeranno queste parole e penseranno che sono relatable. Altri penseranno che si tratta dell’ennesimo fr*cio che vuole fare la vittima, che è un termine che non amo e non credo che sia utile per descrivere la mia esperienza: vivo a Milano da quasi due anni e ci sto benissimo, qui ho tante persone che adoro e che mi supportano, complessivamente non sono molto oppresso e il mio modo di essere e pensare viene per lo più celebrato.
Ma quando cresci in un paesino di provincia e le persone intorno a te ci tengono a farti sapere ogni giorno quanto fai schifo, che i gay non dovrebbero adottare, che baciarsi in pubblico è sbagliato se lo fanno due maschi, e le offese si uniscono a una serie di commenti che esaminano nel dettaglio il tuo aspetto fisico, poi finisci per farti schifo da solo. E quando ti vergogni del tuo corpo e del tuo orientamento sessuale, pensi davvero di essere il cesso e che nessuno ti desidererà o amerà mai, ti senti in colpa se ti fai le seghe sui porno gay – dopo un periodo a guardare esclusivamente video boy/girl, o addirittura girl/girl – e ripeti a te stesso “è una cosa normalissima che fanno tutti ragazzi etero per curiosità, no?”
E allora pensi che in fondo puoi vivere sacrificando questa parte di te, e rinunci anche a una serie di espressioni che sono devianti o cross-gender, smetti di sculettare, cerchi di regolare la tua effemminatezza, e pensi che effettivamente non morirai se non metti lo smalto sulle unghie.
Poi ti inizia a piacere quel tuo compagno di classe che è vagamente più carino degli altri, ma ovviamente etero, e pure ti senti in colpa e frustato; ti dice “non immaginavo che queste cose potessero succedere così vicino a me” e, tra curiosità e disgusto, vuole sapere come e su cosa ti seghi. Tu poi certe cose le racconti volentieri, perché finalmente qualcuno ti ascolta, anche se è perfettamente in linea con quel modo tipico di pensare la sessualità, da un lato opprimente e oscura, di cui non si può mai davvero parlare, dall’altro continuamente soggetta allo sguardo inquisitorio altrui – la stessa curiosità morbosa che porta le persone a chiedere “ma quello è gay?”
Con i maschi non vai troppo d’accordo, il gruppo same-gender pensa che tu sia un deviante e cerca di “raddrizzarti”, e tra loro non si mostrano mai affetto se non prendendosi “amichevolmente” in giro o chiamandosi “ricchi*ne” a vicenda. Il gruppo di femmine è competitivo e frammentato. In ogni caso non sei abbastanza per nessuno dei due: troppo girly per i boys, troppo manly per le girls, che in fondo con te non si aprono mai davvero e ti trattano come se fossi un mostriciattolo o un animaletto raro da proteggere e difendere paternalisticamente, o peggio, una borsetta da portare con sé – si veda “voglio un amico gay”.
Tua mamma invece ti dice che probabilmente è solo una fase, di non esserne troppo sicuro, che forse tuo padre da piccolo doveva starti più vicino, che anche lei da piccola era confusa. A tuo padre non lo dici nemmeno, perché ti aspetti, a torto, una reazione di rifiuto, o ti dici che tanto forse lo sa già, visto che in paese la gente parla, le voci girano.
Tutto questo succede mentre ti è negata ogni forma di supporto da altri omosessuali, che alla fine non esistono, sei l’unico della scuola che è dichiarato e passi gli anni dell’adolescenza sentendoti una specie di alieno. Magari qualche altro ragazzo gay lo conosci pure, ma non andate per niente d’accordo, vi schifate istintivamente solo perché condividete l’orientamento sessuale, come se si volesse una sorta di esclusività rispetto alla cosa, tipo “sono io il gay qui”. Contemporaneamente, il senso di disgusto interiorizzato ti porta a pensare che non farai mai sesso, che sarai destinato a vivere una vita di frustrazione sessuale eterna in cui il minimo stimolo ti causa un’erezione mentre il testosterone ti mangia dentro e tutte le persone intorno a te si fidanzano e fanno sesso per la prima volta.
Ci ho messo tempo ad amare gli altri gay, ad approcciar loro con curiosità e a superare quel senso di invidia e disgusto istintivi nei loro confronti; purtroppo vedo tutt’ora tante persone tra noi che sui social si mostrano inclusive e aperte, ma segretamente non vedono l’ora di vedere gli altri sbattere con la faccia a terra, che se le incontri dal vivo ti guardano male da testa a piedi, ed ecco che ritornano l’inquisizione e lo schifo. Mi piace uscire nelle “zone gay” della città, mi diverto con i miei amici, ma mi sento a disagio se inizio a pensare che gli altri sono più belli o si vestono meglio di me. Poi mi ricordo che questo senso di competizione è inutile, che dovremmo costruire un clima inclusivo e di cooperazione.
Io stesso provo un senso di imbarazzo misto a disprezzo (o come direbbe la Youtuber Contrapoints, cringe dell’ingroup) nei confronti di quei gay machisti che fanno slut/body-shaming, credendosi i re della comicità o “politically incorrect”, così come verso quegli attivisti – che in parte stimo – ma che mi fanno venir voglia di nascondermi quando portano avanti determinati discorsi comportandosi come una folla inferocita.
Si chiama “Minority Stress” un modello in Psicologia Sociale che descrive quello stato di allerta e stress cronico che caratterizza le persone LGBT+, dovuti ad esempio a discriminazioni istituzionali e sociali, tensione per il fatto di non poter far coming out, l’interiorizzazione dello stigma – che è la fonte di stress più prossimale. Qualcuno potrebbe sostenere che “non solo le minoranze sono stressate”; certo, siamo tutti veramente esauriti, ma penso anche che questo contest alla “America’s Next Top Victim” sia davvero faticoso. Il punto è che sono le motivazioni alla base dei comportamenti e i numeri a descrivere i fenomeni: siamo stressati perché subiamo certe cose a più livelli.
Dall’interno della comunità ci viene detto di essere orgogliosi di ciò che siamo e io certamente lo sono, ma la verità è che può essere difficile quando i danni emotivi dovuti ad anni di bullismo e auto-svalutazione persistono per così tanto, nonostante andiamo via e ci allontaniamo da tutte quelle persone che ci hanno fatto stare male, che nel frattempo probabilmente sono anche cresciute e cambiate, ma le cui parole e azioni sono rimaste dentro e continuano a produrre disagio.
Se in età adulta siamo così “sessuali” e “ostentiamo” è perché, dopo un’adolescenza di repressione e pianti tutte le notti prima di andare a dormire, alcuni di noi finalmente riescono a trovare la propria dimensione e il supporto di cui avrebbero avuto bisogno, che creano uno spazio in cui potersi esprimere, al di là di una società che da un lato ci rende più “visibili”, ma che dall’altro, fuori dalle nostre bellissime bolle, continua a essere oppressiva. Come disse l’attivista trans Daniela Lourdes Falanga durante il Pompei Pride del 2018, “Ci siamo generati da soli nel momento in cui abbiamo preso consapevolezza di quello che eravamo; ci siamo partoriti da soli nel momento in cui abbiamo fatto coming out. Ci siamo partoriti da soli, e questa libertà non ce la toglierà nessuno.”
Laureato in Psicologia, aspirante ricercatore. Parla molto spesso di sesso e occasionalmente scrive a riguardo su Medium e Rolling Stone. Crede di essere Samantha Jones, ma in realtà è una Carrie Bradshaw qualunque.