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illustrazione Fino alle ossa - Ilaria Spina - SPLIT - Pidgin Edizioni

Fino alle ossa

Tre piani senza ascensore alle 04.00 di mattina.

Mentre giravo la chiave nella serratura, cercando di non fare rumore, non ero più tanto sfacciata.

Toglievo i tacchi prima di entrare.

Aprivo la porta, accendevo la luce per non pestare il vomito: di sicuro c’era del vomito.

C’era il vomito.

Mollettone in testa, già pronto, aggrappato a una sciarpa sull’appendiabiti.

Sbattevo la borsa sul tavolo, mi spostavo nella stanza, evitavo le chiazze. Oggi una, domani due.

Bagno, secchio, acqua, detersivo, sacchetto di plastica.

Scottex per raccogliere, straccio per lavare, straccio per asciugare, spray profumato per tessuti (che è più persistente) sul linoleum.

Lavavo a mano e stavo attenta a non poggiare per terra le ginocchia avvolte dai collant.

La minigonna stretta rendeva tutto molto complicato ma mi sarei cambiata dopo, a doveri assolti: era il mio rituale.

A volte trovavo i piatti rotti, a volte le sedie rovesciate, a volte il pattume dall’entrata alla porta della camera da letto. Sembrava una moquette.

Dalle chiazze di vomito sapevo quante bottiglie avrei trovato, se ne mancava qualcuna la cercavo dietro al divano, sotto il tavolo, sotto i mobili.

Se erano in frantumi contavo i fondi: rimanevano sempre interi.

Raccoglievo a mano i vetri, mi proteggevo con uno straccio: la scopa avrebbe fatto baccano e lei si sarebbe svegliata.

Non ero più tanto figa: insieme al vomito e alla puzza di acido lavavo via la spavalderia ostentata in discoteca.

Ero certa che quegli odori mi sarebbero rimasti sotto le unghie.

Ma più c’era da pulire, sistemare, ristabilire un ordine, più mi montava l’eccitazione per il mio rituale.

Mi chiudevo a chiave in bagno.

Toglievo gli orecchini ingombranti, mi guardavo allo specchio: il trucco sfrontato, il rossetto audace, l’orecchino al naso e le mani cotte dalla candeggina di poco prima.


Ma dove cazzo vuoi andare.


Mi lavavo il viso tre volte con tre detergenti diversi, all’ultimo passaggio aggiungevo un pizzico di zucchero allo struccante: per staccare l’alito oleoso dei maschi con cui ero stata e che aveva impregnato e occluso i pori della mia pelle.

Mi asciugavo e mi toccavo il viso a lungo: ero ancora io, ero di nuovo io, quella che fa la figa in giro e scopa chi le pare. Poi però in ginocchio, a pulire il vomito.

Toglievo la minigonna, sfilavo i collant. Toglievo top, reggiseno, mutandine.

Puzzavano più del materiale gastrointestinale viola-vino-sangue: l’odore della mia pelle usurata, della mia carne logorata, di liquidi organici, di secrezioni genitali.

Mi ficcavo in doccia.

L’acqua doveva essere tanto calda quanto più riuscivo a sostenerla: mi avrebbe disinfettata. Bruciava da lasciare la pelle dolorante, ustionata.

Dovevo sciogliere la pelle che vestivo fuori da quella casa.

Sentivo l’epidermide liquefarsi, lo sporco che mi abitava squagliarsi, diluirsi.

Mi rimettevo insieme, mi ricomponevo osso per osso: le mie ossa tornavano lucide, limpide, lisce. La spina dorsale regnava come una pista da ballo vuota.

Tornavo splendida senza quel montone di cute lurida sulle spalle.

Mi passavo la saponetta – quella che comprava da Heppy Orient e che puzzava di panni umidi – sul corpo, senza spugna, dovevo tastare la mia pelle: la mia massa era la stessa? Lo spazio che riempivo era lo stesso?

Con un vecchio spazzolino per i denti grattavo sotto le unghie: lo strofinavo prima sulla saponetta e poi raschiavo, unghia per unghia: l’odore dei cazzi tenuti in mano montava schiuma.

Protetta dall’accappatoio ruvido rimanevo seduta sulla tavoletta abbassata del cesso per un tempo che mi sembrava infinito: mi guardavo i piedi, li trovavo brutti, galleggiavo nell’umidità del bagno – un buco di merda di quattro metri quadrati in una casa di quarantacinque – sospendevo i pensieri, fissavo le piastrelle rotte e le fughe ammuffite. Ondeggiavo su un’altalena e mi lasciavo oscillare sopra il burrone.

Mi mettevo il borotalco. L’unico ricordo affettuoso dell’infanzia.

Infilavo il pigiama con l’elastico molle, i colori stinti, i polsi mangiati: umido perché lo lasciavo sempre in bagno.

Andavo a letto.



Ma quel giorno.

Salgo le scale, mi fanno fatica i tacchi, me li levo, ficco le scarpe in borsa, cazzo me ne frega. Rido pensando che quel tipo ha voluto leccarmi i piedi a tutti i costi. Sentiti libero, come tutti. Fai quello che ti pare, come tutti. Basta che ti sbrighi.

Ogni piano si lascia alle spalle il sesso casuale, l’insolenza, la strafottenza; sulle ginocchia torna il peso del pavimento che puzza, del muro macchiato, dei fornelli incrostati. È tutto lì che mi aspetta.

Giro la chiave, luce, mollettone in testa, borsa sul tavolo.

Merda.

È accasciata tra il tavolo e la porta del bagno, impalpabile come le vesti dimenticate sulle sedie, il rossetto pasticciato, il viso scavato e gli zigomi alti, come i miei.

È fatta di solitudine e qualche etto di carne.

I capelli nel vomito, non ha manco fatto in tempo ad andare a letto, fortuna che sono corti.

Una bottiglia sul tavolo, due per terra, guardo il vomito, ne manca una.

Il frigo è aperto, c’è una confezione di prosciutto per terra in mezzo alla stanza, una pentola, dei piatti, la tovaglia strappata: un mosaico sul pavimento.

Un paio di bicchieri rotti – a che cazzo ti serviranno mai che tanto bevi a canna –, la moka smontata – un corpo tranciato in due –, polvere di caffè dappertutto – un formicaio impazzito.

Merda.

Raccolgo, appoggio tutto sul tavolo.

Bagno, scopa, paletta, secchio, acqua, detersivo, sacchetto di plastica.

Scottex per il vomito, straccio per lavare, straccio per asciugare: pulisco intorno al corpo smagliato e fluido (così posso trascinarla in camera senza ulteriori disastri). Faccio un gioco: le disegno il contorno con lo straccio bagnato, come sulla scena di un crimine.

Le lavo i capelli con un altro straccio che bagno e strizzo. Lavo, bagno e strizzo.

Lo spray profumato sul linoleum lo spruzzerò dopo, prima la porto a letto.


Ma dove cazzo vuoi andare.


Tolgo gli orecchini, mi guardo allo specchio.

Mi strucco: acqua, detergente, acqua, cambio detergente, acqua, cambio detergente e zucchero.

Mi svesto.


Dio quanto ti puzza la pelle.


Apro l’acqua della doccia, tanto calda quanto riesco a sostenerla.

Mi ficco sotto, brucia, fa nulla: ora la pelle si scioglie e rimarranno le ossa.

Ma oggi la pelle non si scioglie.

Con le mani strofino sulle braccia, sulle gambe. La pelle non si scioglie. Brucia e basta. La pelle rimane sporca. Ne sento l’odore sudicio. Non si scioglie.

Prendo la saponetta, me la passo sul corpo, acqua bollente, sapone e acqua bollente, sapone, sapone e acqua bollente.

Sono sporca, non va via, il lurido non si diluisce, è tutto lì: l’unto, l’odore, lo sporco è tutto lì.

Schiaccio la saponetta sul soffione della doccia, la superficie diventa irregolare, sulla pelle fa attrito, magari così levo lo sporco.

Non voglio sentirmi sporca per sempre.

Niente. C’è ancora puzza, c’è ancora quella maledetta puzza di bestia in calore che si è infilata nel cervello e come un verme scava i buchi nella terra.

La pelle brucia, ma non riesco a togliere lo sporco che sono.

Chiudo l’acqua, esco dalla doccia, dal bagno, vado verso il lavandino della cucina, nuda, lascio impronte di acqua e sapone, prendo la spugna dei piatti, quella verde da un lato, torno in doccia.

Acqua bollente, rovente, bagno la spugna, niente sapone: sfrego con la parte abrasiva, sfrego le braccia, l’addome, le gambe, l’inguine; mi grattugio come un frutto. La pelle si arrossa, si assottiglia. Carta vetrata.

Gratto con forza, fatico, mi stanco, gratto ancora, l’acqua è bollente, non mi fermo, la pelle brucia, gratto, tutto mi brucia, l’acqua, la pelle si consuma, l’addome si lacera, sanguino, non mi fermo, gratto ancora, sfrego più forte, brucio, vedo il sangue e brucio, penso alle ginocchia sbucciate della bambina che ero, mi sentivo grande con le mie sbucciature, ma adesso cosa sono?, dove sono?


Dove cazzo sei andata a finire?


Piango.

Mi siedo sul piatto doccia. Fa schifo, è pieno di macchie, è rotto, c’è la muffa. Fa schifo.

Chiudo l’acqua.

Rimango accovacciata con le ginocchia al petto, il ventre escoriato, sanguinante, ustionato.

Mi penso e piango. Mi guardo e piango. Mi vedo da fuori e piango.

Piango come non mi sono mai autorizzata a piangere.

Mi tocco, tocco tutto il mio corpo. I piedi, le gambe. Salgo. Il seno, le braccia, il viso.

La saponetta molliccia. Attraverso lo specchio guardo il degrado del bagno: non capisco dove finisce il bagno e dove inizio io.

No!

Io non sono questa saponetta, io non sono questo bagno.


Sei solo l’imbratto che candeggi.


La sofferenza fa perdere il senso dello spazio e del tempo: sembra sia tutto e per sempre. Devo trovare il mio disgorgante, spurgare tutto il mio dolore. Come il gel che scivola nella griglia del sifone e scioglie gli ingorghi. L’acqua viene inghiottita nel tubo, nessuna pozza, niente schiuma sporca che galleggia.


Dove cazzo vuoi andare, ormai sei tutta qui.


No. Io non sono questa saponetta, io non sono questo bagno.

Mi tocco ancora.
Eccola. Ecco la mia pelle, la sento compatta. Di nuovo. Posso essere al sicuro.


Non sei al sicuro.


Un giorno alla volta. Con la parte verde della spugna, il tocco leggero e l’acqua fresca, un giorno alla volta. La pelle di borotalco, un pigiama nuovo, asciutto e senza buchi, un giorno alla volta. Un giorno alla volta posso essere al sicuro.


Il linoleum è asciutto. Avanti, fila a letto.






 Ilaria Spina è nata a Milano nel 1982.

illustrazione Fino alle ossa - Ilaria Spina - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Fino alle ossa”, un racconto di Ilaria Spina per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni

2 Commenti

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Fino alle ossa – ;
15 Giugno 2021 a 12:03

[…] Fino alle ossa […]

Fino alle Ossa: odore di carta. – ;
3 Agosto 2021 a 16:57

[…] Il racconto si trova qui:https://www.pidgin.it/split/fino-alle-ossa/ […]