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illustrazione Me le suono - Giorgia Giuliano - SPLIT - Pidgin Edizioni

Me le suono

Bagno il guscio di una lumaca, una lacrima la mura viva, con il pianto l’ho salvata. Trasportarsi casa ovunque è un dolore. Spesso metto le mani in tasca senza trovare la chiave. 

Le poche volte che parlo con Paola, parliamo di Paola. E di Rossella, di Ginevra e di tutte le donne che Paola tira in mezzo perché si capisce che vuole sentirsi dire qualcosa. Non funziona così, penso. Le donne non sono scale. Fino a quando quella cosa non esplode. «Di tutte, solo io ho le gambe.» 

Con una mi tira un calcio. Per Paola i numeri dispari vivono in disputa contro i pari. Il due è incalcolabile, l’uno irreversibile. A irreversibile Paola si compiace e il suo calcio diventa un piedino. Ha un più e un meno, Paola. Come le pile stilo.

Paola si loda insultando tutte. Riempirebbe di donne il Pantheon trasportandole dentro con una carriola, ammassandole come carne in fase di frollatura, poi bloccherebbe le loro teste in alto con una graffa dietro il collo. Lei, oculus su tutte. Le vedo il sangue negli occhi, il bulbo una flebo che torna a riempirsi, la sua crudezza zanzara che sbianca il sangue, l’energia di un’ape operaia. Poi di colpo stende il braccio, Paola, come chi implora di farsi bucare. Trasmette quella strana sensazione di dolcezza che si prova per chi sta morendo, e allora penso che poco prima ha voluto solo dire un’ultima preghiera.

Siamo sedute al quinto piano, dietro la porta della sordomuta, quella senza campanello e con due spioncini, uno per ciascun occhio. Raddoppiare per nascondere agli uomini le loro mancanze. Paola curva i capelli sempre dietro le orecchie, ferisce alla pari chi non parla e non sente, conia la lingua ufficiale dei dispetti, in grassetto la conca, il trago, la tromba di Eustachio, l’udito è persino di Eustachio, un signore che nella sordomuta dorme da quando è nato. C’è scotch di carta sul davanzale, appena dietro i tre vasi di viole. Paola lo appiccica alle labbra e poi strappa forte, arrossa i bordi del vermiglio, leva via i baffi, il suo labiale perde frontiera. Coi contorni rossi, la bocca si battezza cuore. Avere un altro cuore è come avere due gemelli e si vede che Paola non lo dice perché figli non ne vuole. Paola è una stringa di ricerca che digita al mio posto, leggo tutte le sue informazioni veloci. Se guardo da un’altra parte, lo schermo si annerisce ed è silenzio.

«Tu non hai mai niente da dire.» Faccio di no con la testa. «Mi sta bene.» Le guardo le mani, lei se ne accorge e le mette in tasca. «Me ne vado.» Solo perché le ho guardato le mani. 

Scende a levarsi l’impiccio giù al terzo piano. Paola non sopporta le buone azioni, le fa durare un quarto d’ora, un angolo retto. Il suo sacrificio è un piccolo quadrato ingoiato a forza. Accudisce sua madre e risolve la formula, solitudine è lato x lato, scrive alla lavagna e poi risale al quarto piano. Le dita sporche di gesso, bianche di borotalco. Fisso ancora le sue mani da dietro le viole, i petali sono palpebre chiuse, così sembra che non guardo niente. Nei suoi palmi ha parole che non riescono a uscire, ci sono sillabe nei prossimali, un alfabeto incastrato nel carpo: Paola avrebbe cinque bocche, anzi dieci, se solo imparasse a parlare. Sbatto gli occhi, supplico incantesimi, ma la mia magia non è reattiva, le ghiandole del pianto me l’hanno bagnata. Paola prende a calci i gradini, io mangio un’unghia, assottiglio una lettera, non so quale. Sfoltisco la mia lingua, le tolgo una mezzaluna dura e bianca, una mezzanotte di silenzi in cui la luna cade. Senza boato. Nella casa della sordomuta ci sono le impronte degli ultimi suoni, hanno i piedi consumati, vorrei massaggiare quei piedi, sentire se mi dicono grazie

Ho udito un solo suono nella mia vita, ed è stato quello del pianto. Mia madre mi disegnava sotto  una campana, ti protegge il silenzio dai rumori del mondo, alla parola protegge si abbracciava, era il linguaggio della compassione, vendeva i disegni come quadri per farli sembrare un gioco. Io finivo attaccata ai chiodi, alle colonne, alle pareti, che tanto era sicura che appesa a un muro non potessi fiatare, spaventare nessuno, chiedere il favore di levarmi dalla cornice. Ho insonorizzato l’affetto: andandomene, mi sono sforzata di fare piano. Io, attrice, ho recitato in costume, ho fatto finta di avere orecchie. Della mia vecchia casa ho solo nostalgia della legna incisa. 

Quando Paola mi ha affittato il quinto piano ha fatto fare al pollice dei cerchi veloci su indice e medio, il giro orbitale dei soldi, ha segnato l’orbita di trecentocinquanta euri. All’inizio pensavo fosse una sillaba del mio linguaggio, una nuova o che mi era sfuggita. Io non rispondevo, lei aveva risparmiato un dito. Con pollice e indice, senza il medio, aveva fatto una pistola e l’aveva puntata in alto, non proprio sulla tempia ma verso la mia fronte solo che, anziché sparare, l’aveva scossa, la canna oscillava unta, il grilletto pieno di pellicine. Aveva capito che non avevo soldi. 

«La pagherai ugualmente.»

Da quel giorno Paola mi riempie di botte che non sono feroci, reagisce all’ingiustizia con altra ingiustizia. Che io non ricambi è giusto, se giusto vuol dire coerente. Se non ho soldi. 

Non conosco la sua voce, ma so che dà più botte. Che il rossore persiste nella parte interna delle guance di Rossella e di Ginevra, nei punti che assorbono il linguaggio e che il linguaggio pesta a sangue. Paola prevarica le due sorelle, vuol essere la più degna e loro, scale prive di furbizia, non la fanno mai scivolare. Il suo piede è un corvo che becca il mio sedere, è così che pago l’affitto, con il culo arrossato e col dolore che temo faccia un brutto suono. 

Stanotte lampi blu hanno illuminato il pavimento, ci ho camminato scalza perché sembrava un lago, poi mi sono stesa, ho finto di nuotare, a un certo punto l’acqua è finita e io mi sono sentita una macchia di bava nella mia veste bianca. La schiena ha iniziato a sollevarsi, piccoli scatti uguali a spilli, con i gomiti in fuori ho atteso la spinta più forte, che con più forza mi ha schiacciata al marmo. Per la prima volta, ho sentito aggrapparsi alla pancia l’embrione dell’udito. Tutto il mio corpo un grande orecchio, l’orecchio di un elefante nel punto più ventoso di una savana con il cielo scorticato. Ho visto cadere i miei vasi di viole, ho provato ad avvicinarmici col mio passo urlante: i suoni sono movenze, hanno i muscoli per piegarsi, serve silenzio per sentirne il lavoro. 

Giù al quarto piano è successo qualcosa a Paola. Petali che diventano calzascarpe dietro i calcagni, mentre cammino li rendo cera, strascichi del mio intervento, scendo a capofitto le scale e Paola è lì, senza braccia, dietro la sua porta col campanello a destra. Non ha più solitudine quadrata, di fianco a lei poliziotti che con le sue stesse braccia le hanno fatto un triangolo sulla schiena. Paola deve pagare anche per lei, deve pagare per tre. Rossella e Ginevra sono imbrattate di sangue ancora vivo, fresco, scosso. Schizza come il flessibile di una doccia che bisogna riparare. Le sorelle si accarezzano a vicenda e si passano rosso carminio e rosso prugna, sembra che si scambino due bicchieri d’acqua per levare via lo spavento, il sangue è il chiaroscuro dei due volti, il più scuro è di Ginevra, il più ferroso, il più preparato alla violenza di Paola. 

«Vattene via.» Inizia così, il suo annuncio di sfratto. Con una consonante labiodentale. Faccio di no con la testa, un comando che le fa scattare in avanti il piede. Glielo vedo fare da tre mesi. «Vattene o te le suono,» ma il suo miracolo rabbioso prende quota e scompare, rifiuta la dimensione terrena, non vuole destinarsi a nessuna carne umana, diventare mortale. 

Mi avvicino a Paola e la tocco con una sola parte del corpo, lei è la corda di un’arpa e io ci appoggio le labbra, sgroviglio la corda, la bacio con passione e la perdono, tranquillizzo le botte che mi ha dato, quei calci puri che non hanno più colpe. Ma Paola ha proprio voglia di farsi arrestare e mentre la bacio mi morde. Non mi ha mai fatto uscire il sangue: tutto ma non il sangue pareva dirsi, per trattenersi, quando mi prendeva a calci. Credeva che il sangue colmasse la mia assenza di voce, sono gonfia per questo, non è per le botte ma perché ho il doppio del sangue degli altri. 

Ha i poliziotti ai fianchi come pistole, vedo Paola in piano americano, sembra una dama in carrozza. Lei però si sente cocchiere e il carro si accappotta per le scale. Le ruote girano a vuoto nell’aria, si alza fumo dai gradini, è la polvere dei saliscendi tra il terzo e il quarto piano, il corpo di Paola comincia a diventare cenere a partire dalle sue impronte. Le due sorelle ricambiano il favore di chi le salva, aiutano le autorità a rialzarsi, mentre Paola si rialza da sola. 

«Non voglio compagne di cella. E non autorizzo visite. Nessuno potrà venire a trovarmi.»

Si volta e zoppicando prende a scendere le scale, m’immagino Paola su una branda senza cuscino, le orecchie schiacciate sugli avambracci, l’udito che non le serve. 

Piango sul guscio di una lumaca, si era accasata tra i vasi di viole. L’ho stretta in un pugno mentre baciavo Paola, come se lo stritolamento potesse aumentare la potenza del bacio. Pulita, la appoggio sul corrimano e impugno qualcosa di più pesante, che non ha più nessun padrone. 

Dal labiale di Paola ho soltanto capito che vuole marcire da sola, e io gocciolo sangue dal labbro inferiore. I miei lividi stanno guarendo, non avrò più pelle in tempesta, non pagherò più affitti. Mando giù questo brodo di sangue che tornerà a circolare, ha il gusto delle spranghe di ferro a cui Paola si aggrapperà come una scimmia già prigioniera di somigliare all’uomo. Ingoio il sapore delle sue sbarre, del suo carcere e torno su al quinto piano, nella mia cella insonorizzata. 

Mi sono sparata un colpo di pistola nell’orecchio, per non sentire davvero più niente. 






Giorgia Giuliano è appassionata di Giappone. Vuol fare come Salgari, che scrisse dell’India senza esserci mai stato. Di origini pugliesi, vive a Milano dove lavora in pubblicità come copywriter. I suoi racconti sono su Nazione Indiana e Grado Zero. 

illustrazione Me le suono - Giorgia Giuliano - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Me le suono”, un racconto di Giorgia Giuliano per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni