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Aspira all'incendio - Nicolò Bellon - SPLIT - Pidgin Edizioni

Aspira all’incendio

Guardami bene, guardami meglio. Ho vent’anni e so tutto.

L’aspetterò fino al mattino, se necessario. Attenderò il suo ingresso disordinato, in ritardo come al solito. L’accoglierò con un saluto nostrano, un cenno del capo, un’alzata di mano. La farò sedere al mio fianco. Ordinerò un caffè lungo senza zucchero per me e una tisana alle erbe per lei. Cercherò la sua erre rotolante, il suo doppio mento, le spalle strette, le gambe lunghe. Mi stupirei se non portasse un mio vecchio maglione. Senza troppi disturbi le chiederò come sta, quante volte il mondo si è rotto in mille pezzi davanti ai suoi occhi. E in silenzio aspetterò il suo responso.

Guardami bene. Noterai una cicatrice sul lato sinistro della fronte, un cuore sfocato tatuato sul dito medio destro, una t-shirt slabbrata, la barba disordinata vecchia di due giorni, i capelli sporchi di tre. Il piede batte a tempo di un ritmo già sentito. Se solo potessi spogliarmi, ti stringerei stretta e assieme danzeremmo sul lento che canticchio. Love, love will tear us apart again.

Guardami meglio. Ho gli occhi di mia madre, così chiari da bruciare ogni volta che incontrano il sole, e i piedi di mio padre, escludendone i calli. Ho il naso di mia nonna, la peluria degli zii materni, il fisico asciutto di chi pensa troppo. Penserai che sia bello ma non troppo, affascinante il giusto, garbato ma distante, forse elegante. Innamorato di chiunque stia arrivando e ancora non è qui. L’attendi con la mia stessa angoscia come fossi seduta tu a questo tavolo, ti sembra quasi di conoscerla, sicura di riconoscerla non appena varcherà la soglia. Ma là fuori tira vento e il cielo s’impiomba: non verrà.

L’aspetterò con gli occhi fissi a scrutar la gente che passa, fino a quando non ne distinguerò la camminata impacciata. L’attenderò come aspettavo nonna all’uscita di scuola e lei si dimenticava di venirmi a recuperare. Ma mi voleva bene, e me ne vuole, e sempre gliene vorrò. Le bidelle mi offrivano un tè caldo dalle macchinette con qualche biscotto fatto a mano, sempre troppo dolce o troppo amaro. Mi mettevo a fare i compiti mentre loro pulivano i vetri e spazzavano i corridoi. Arrivava poi mamma, una volta chiuso il negozio di parrucchiera. Riconoscevo il rumore del motore claudicante della sua Citroen Saxo da lontano.

Guardami meglio. Prima di ogni cosa c’è un nome, e già avrai fantasticato sul mio: Federico, Giulio, Gregorio, Mattia, Matteo, Alessandro, Sergio, Vincenzo, Lorenzo, Roberto, Michele, Andrea o Tommaso; e già ho fantasticato sul tuo: Rebecca, Alice, Selvaggia, Francesca, Isabella, Lucia, Nicole, Jessica, Marianna, Sara. Perché senza un nome non si è niente, eppure hai un corpo, una voce, neppur troppo squillante, anche una vita che t’attende timbrato il cartellino che merita d’esser vissuta. Ti chiederai quale sia il suo nome, perché il nome dà forma al resto. Servirebbe un nome, per dar senso al discorso e forma al dolore, per testimoniare il passaggio di chi è stato bambino, adolescente e poi uomo. Potrei dirti che il mio l’ha scelto mio padre che si chiama come il primo uomo che ha viaggiato nello spazio. Destinato a toccare il cielo e le stelle con un dito. Un nome così complicato che il parroco si rifiutò di battezzarlo, e per un attimo fu un altro – per un attimo e poi mai più. E potrei aggiungere che altre due volte quel suo nome venne modificato: prima da sua nonna paterna, che aggiunse qua e là qualche i greca, infine da mia madre che portò ordine e lo fece essere, una volta per tutte.

Guardami bene. Ora ti prendo e porto via. Perché so che non verrà: m’infilerò il cappotto e farò per andarmene distratto dal casino che c’è attorno. Raggiunta la porta, mi volterò a guardarti – tu là dietro al bancone. Ti chiederò il tuo nome.

Ma guardami bene. Ne riconosco il cappotto e il tremore leggero. Sta fumando. L’aspetto, l’osservo, per un momento l’uccido. Poi mi alzo, esco.

È già qua.

Guardami bene, guardami meglio. Ho vent’anni e non so niente.

Mi chiede: – Lo vuoi un tiro?



Alla mia età nonno fumava le Nazionali senza filtro: sei lire, cinque sigarette. Gli insegnò a tirare suo zio Toni, in mezzo alle risaie vercellesi, una sera d’agosto che faceva troppo caldo persino per le zanzare. Aveva nove anni, e per i sessanta successivi non avrebbe smesso mai: trenta sigarette da mattina a sera, i baffi sempre più dorati; mai un colpo di tosse, mai un graffio nel suo tono pacato. Alfa, MS e Camel light blue. Fuma in una notte di festa mentre chiede a una ragazza di ballare; fuma mentre accompagna la stessa ragazza fuori dalla chiesa, sotto una pioggia di chicchi di riso; fuma nervoso quando un’infermiera pelosa gli corre appresso urlando: “È nata, è femmina”; fuma stringendo quella femmina tra le braccia, e ancora, anni dopo, tutti i nipoti a venire.

Ho fumato la mia prima sigaretta a diciott’anni nel parcheggio di una pasticceria notturna. Un’amica mi mise in bocca una Winston blu. Aspirai, tossii, ci riprovai, mi sentii svenire e poi morire: continuai.

Le osservavo i polsi mentre si ripuliva le labbra dalla crema al mascarpone, gli occhi stanchi, le caviglie sottili. Portava un maglione da uomo e pantaloni a sigaretta, un paio di anfibi le tagliavano i polpacci. Il fumo a cui mi aveva iniziato non ne modificò mai il tono di voce, già roco e indurito da un’erre troppo moscia che dicono che venga ai pigri. Ogni discorso era un valzer stonato e conscia di ciò parlava poco con chiunque non avesse abbastanza confidenza, fermandosi a controllare il suono d’ogni sillaba, il senso d’ogni frase.

Finì il tiramisù, puntellò i gomiti sulle ginocchia e con il viso chiuso tra i pugni si voltò, mi sorrise.



– Lo vuoi un tiro?



Ci siamo conosciuti il giorno della fine del mondo.

Stavo contando i minuti che mi separavano dal giudizio universale quando mi sentii chiamare da una compagna di classe. Mi chiedeva di tenere la testa dell’amica il tempo di cercare qualcuno che le portasse a casa. Avrei potuto fregarmene, ingoiare il gin rimasto sul fondo del bicchiere e tornare in pista a ballare, in attesa dello scacco matto. Ma riconobbi il suo sguardo, che è ciò che resta alla fine di ogni violenza, capace di chiudersi davanti al male e aprirsi di fronte alla gioia, di cancellare il dolore con un battito di ciglia. Quindi ne afferrai le ciocche dorate, le misi una mano sulla spalla, avvertii i muscoli in tensione, le ossa sottili, la poca carne che le ricopriva.

Eravamo compagni di classe da poco più di due settimane: lei prima fila, davanti alla cattedra, io ultimo banco in fondo, accanto alla finestra. Arrivò in ritardo persino il primo giorno, comoda in un cappotto scuro, stretta in una sciarpa ingombrante. Venne a presentarsi al suono della prima campanella: mi strinse la mano fredda e presi la scossa. Si allontanò e la persi nella confusione dei corridoi.

– E tu chi cazzo sei? – mi chiese, ripulendosi la bocca con una manica di piumino già sporca.

– Siamo in classe assieme, sono quello nuovo.

– E Giulia?

– È andata a cercare qualcuno che vi riporti a casa.

– Ma io di qua non mi muovo, sto benissimo.

– …

– Hai una sigaretta?

– Non fumo.

– Infame e pure stronzo.

– …

Una spinta leggera l’avrebbe uccisa. Bastava un colpo e la testa si sarebbe. aperta in due sull’angolo del marciapiede; e se non fosse bastato avrei trascinato il corpo fino al centro della carreggiata dove il primo autista assonnato l’avrebbe investita confondendone il cappotto per il manto di chissà quale grande roditore. Senza alcun testimone presente, avrei finito il gin per poi tornare a ballare.

Potevo soffocarla, squartarla, sezionarla, persino stuprarla, o peggio ancora: dimenticarla.

Sono nato in campagna, moto da luogo, tra il cantare del gallo e le coltivazioni di patate. Lei era la città: moto a luogo, irrequieta e distante, sempre irraggiungibile, eppure ora, era lì.

L’afferrai e la spinsi dentro il locale dove la puzza di sudore riempiva l’aria e le luci stroboscopiche ridisegnavano i corpi: ora scomposti, ora scomparsi. La sentii scivolare, riconobbi il tanfo secco e amaro di sigaretta, la ritrovai a un centimetro dal mio volto, tossii rumorosamente. Mi disse – Vieni a ballare.

Accadde lì: la mia schiena stretta appoggiava sulla sua, i suoi capelli dorati cadevano sulle mie spalle e le mani si stringevano nell’aria, i colli si allungavano; così ci piegavamo, mantenendo il ritmo, fino a che il culo toccò terra, e di nuovo su a ritrovare l’aria, ancora giù dritti all’inferno e una volta su ci voltammo, faccia a faccia ci baciammo.

Scoprii quella notte, dormendole accanto senza toccarla, il suo russare violento, i fianchi slargati e sotto il seno destro una scritta in corsivo: Pour ceux qui ont aimé, tout perdu, et aimé de nouveau.

La mattina era già scomparsa, lasciando dietro di sé soltanto un post-it rosa elettrico sul cuscino. In una grafia disordinata aveva scritto: “Grazie di tutto. Mi hai tolto il respiro!”



L’ho tradita ma mai dimenticata. Ogni volta che i nostri corpi naturalmente si allontanavano, forzavamo i muscoli, logoravamo i nervi, e inibita la forza di natura che spinge alla sopravvivenza, tornavamo alle stesse scapole, alle stesse schiene. Sottostavamo alle leggi del cielo e di chi lo abitava. Era stato un fulmine a legarci, una scossa sottile capace di fondere nervo a nervo, di confondere sangue con sangue; a quel fulmine tornavamo le notti d’estate quando i temporali frantumavano il cielo che sanguinava sopra le nostre teste e i corpi aderivano all’asfalto ancora caldo. Mi teneva stretto, guardando in su diceva:

– Questa è la pioggia che preferisco. La senti addosso.

Poi chiedeva:



– Lo vuoi un tiro?



Sono negli eventi catastrofici, in quelli magnifici, dentro i fili elettrici.

Ascoltavamo Vasco Brondi, chiusi in macchina a fumare. Fuori il gelo di gennaio, la notte ripulita dal baccano del giorno, l’Orsa e Orione, Toro, i Gemelli limpide brillavano sopra le nostre teste. I cappotti e i capelli già impregnati dal fumo, le sue nocche arrossate, sbucciate, stringevano una Winston blu, mentre io continuavo a sussurrare i versi della centrale elettrica, e lei mi diceva che era un bel nome per un gruppo, e se solo fossimo stati davanti alle luci del polo industriale abbandonato lungo il fiume sarebbe stato ancora più bello. E poi:

– Usciamo.



Qualche sera prima avevamo fumato la nostra prima canna alla festa di un amico, non ci furono effetti collaterali se non la stanchezza innaturale e profonda che ti coglie una volta che l’erba colpisce i neuroni e ammutolisce ogni rumore, blocca ogni movimento, annebbia i ricordi e storta le linee della bocca in un sorriso scemo. Il mattino ci svegliammo sudati e già stanchi. C’era ancora dell’erba sul tavolo, così rollai un’altra canna per la prima e ultima volta, e la fumammo assieme all’alba.

Mentre tornavamo a casa, la macchina scivolò sulla strada ghiacciata e ci ritrovammo nel mezzo di un campo ricoperto di neve. Sopravvissuti per volere dei santi, mi disse:

– Usciamo.



– Usciamo.

Mi chiese una birra, una bottiglia d’acqua, di vino o del gin, della vodka. La delusi.

– Voglio crepare da sola.

– Egoista.

– Mi prometti una cosa?

– Cosa?

– Devi seppellirmi.

– Ma gli uomini muoiono prima.

– Ma io mi ammazzerò presto, così non dovrò sopravviverti.

– …

– Non voglio canti né preghiere e nessun striscione, né lettere e letture, e fa sì che in chiesa non ci siano più di venti persone, mi bastate tu, mia madre e mia sorella. e tua madre e tua sorella, tuo padre e nessun altro, e non piangetemi e non festeggiate, non una parola di troppo, un bacio o un abbraccio. E se riuscissi a evitare la cerimonia, ancora meglio. Bruciami, fallo tu, poi raccogli quel che resta e buttalo in mare e non piangermi più. Dimenticatemi come si dimentica un amore.

– …

– Dovrà essere il più doloroso possibile: il veleno mi addormenterebbe, un colpo di pistola sarebbe troppo rapido, un tuffo dalla finestra potrebbe rendermi solo paraplegica. Potrei accoltellarmi e lasciare che il sangue scorra piano piano fuori da me, che imbratti il letto, il pavimento, fino ad arrivare a quel cazzo di tappeto persiano in salotto. Potresti farlo tu, ferirmi più volte: la prima al petto, poi in gola, una dritta in mezzo alla fica.

E adesso sono qui, è un superpotere essere vulnerabili.

La strinsi più forte senza aprir bocca, qualsiasi parola sarebbe stata di troppo e sbagliata. Vedevo gli occhi velarsi, il labbro incrinarsi, tremare, e le mani friggere, le gambe scalpitare. La baciai per portarla a domani.

Sono pericoloso io che ti rassicuro e hai visto all’improvviso è arrivato il futuro, e adesso sono qui.

Poi la musica cambiò, sentii la voce spezzata di Ian Curtis e la presi per mano, insieme salimmo sulla capote, così piccola che per miracolo non cedette sotto al nostro peso. Ballammo.

Stremati dal freddo, una volta arrivati gli ultimi colpi di batteria, ci sdraiammo sul tetto della macchina. Si accese una sigaretta.



– Lo vuoi un tiro?



Quella volta che non venne a scuola e la trovai chiusa in soffitta. Lì andava quando il mondo si faceva pesante, in dieci metri quadrati impolverati e ricoperti di libri rubati alla biblioteca centrale. Da Ammaniti alla Brönte, nascosti sotto un giaccone abbondante e mai restituiti. La testa appoggiata alla trave più bassa del soffitto, là dove il tetto si fa spiovente, le mani incrociate tra le gambe chiuse, e un cappotto come coperta, il russare tranquillo di chi sa che la guerra è finita. La svegliai, gli occhi arrossati, la bocca impastata. La fronte perlata da un incubo. Mi chiese una sigaretta.

Quell’altra volta, quando fece finta di esser caduta dalle scale durante l’ora di educazione fisica per evitare un’interrogazione di biologia. Studiammo assieme la posizione più giusta, il mugugno più bilanciato, andai ad avvisare le professoresse simulando panico e preoccupazione, e recitammo così bene che arrivò l’ambulanza e la portò via, le fecero una lastra per sicurezza e scoprimmo così che si era davvero lussata il mignolo del piede sinistro, chissà quando, chissà come. Andai a recuperarla fuori dal pronto soccorso, aveva il piede fasciato e una sigaretta in bocca. Mi sorrise e allungò una Camel.

O la sera che la portai a vedere “Ultimo tango a Parigi”. Pianse e mi abbracciò, cercò nel buio le mie mani, io le sue labbra. Aveva ancora le guance rigate dal pianto quando uscimmo e l’accompagnai in piazza, alla macchinetta delle sigarette. Sbagliò e selezionò un pacchetto di Winston 100s.

– Preferisco “Io ballo da sola”.

Aspirò.



– Lo vuoi un tiro?



C’era un sole perfetto il giorno che l’abbandonai.

Urlò fino a farsi bruciare la gola, urlai fino a farmi finire la voce, e ci picchiammo così violentemente che nascondo ancora cicatrici. Mi ritrovai una ciocca di suoi capelli in mano, le sue unghie mi scorticarono la schiena. Cercò di abbracciarmi, mi scostai. Mi accarezzò la testa, la lasciai fare. Provai a baciarla, mi tirò uno schiaffo. Mi prese le mani e le baciò, bloccò le braccia e poi le gambe, a cavalcioni venne su di me. Sentivo vicino il suo battito cardiaco e riconoscevo le striature del suo sguardo, non aveva brufoli o occhiaie, solo un neo sul finire del volto, all’attaccatura dell’orecchio sinistro. Mi sputò in faccia, le tirai uno schiaffo, una smorfia di dolore e rabbia le stortò la bocca e inarcò le sopracciglia, si fece aspra e violenta. Sentì le sue gambe scalciare, le braccia fremere sotto il peso delle mie gambe. Iniziò a urlare, un fischio acuto e perverso capace di rompere le vetrate della chiesa più lontana. Era indemoniata. Lasciai che l’urlo si trasformò in pianto e i muscoli cedettero, smise di combattere e vinta si lasciò accarezzare, poi abbracciare, infine prendere. Andò a cercar aria sul balcone e pensai di buttarla giù, magari di legarmi al suo corpo in caduta e morire con lei spiaccicati al suolo. Si accese una sigaretta, si voltò, mi sorrise, mi chiese se volessi un tiro. Me ne andai. Scendendo le scale sentii chiamarmi dal balcone, mi raggiunse sul pianerottolo col fiato spezzato, mi abbracciò. L’allontanai, raggiunsi l’uscita, mi voltai per guardarla un’ultima volta. La ricordo in mutande urlare il mio nome, e chissà chi tra gli inquilini del suo palazzo ancora si chiede cosa sia successo. Mi chiusi la porta alle spalle, mi accesi una sigaretta.



– Lo vuoi un tiro?



La prima volta che accadde ero tutto un forse.

Ricordo l’odore dei campi dopo una notte di tempesta, il frusciare scivoloso delle ruote delle nostre biciclette sull’erba bagnata, i corpi nudi gettarsi dalle lame più alte, mai pronti allo schiaffo gelido dell’acqua dei torrenti di montagna; ancora il sesso che si svelava, prima tra i boschi, poi nelle camere da letto invase dal puzzo degli ormoni e deodoranti scadenti. Eravamo carne trita. I pomeriggi si confondevano. Eravamo elettrici, esposti a tutto il dolore, a tutto il bene del mondo. Ricordo l’acqua sporca della doccia che facevamo assieme, scoprendoci, il profumo leggero delle lenzuola pulite che ci nascondevano, il colore della sua pelle bruciata dal sole. Eravamo un accenno. Non ricordo cosa ci dicessimo, se mai avessimo parlato, impauriti da ciò che ci stava accadendo. Pronti a lottare per la sopravvivenza, eravamo guerrieri. Quasi ci vedo, ancora incerti sul da farsi, impacciati ma disinibiti allacciarsi e poi slegarsi, incurvarsi, gioire, piangere, soffrire, godere e poi tacere, guardarsi di nuovo, ancora fino allo stremo delle forze.

Poi con addosso la pace di chi ha combattuto e vinto la guerra, dimenticarsi.

Tradito dai baci, dal sesso sbagliato, mi rivestivo veloce lanciando continui sguardi al suo corpo tranquillo. La ricordo alzarsi e raggiungere il balcone, chiudersi la portafinestra alle spalle e accendersi una sigaretta. Io seduto sul bordo del letto sfatto, le lenzuola pulite già sporche, le sue mutande stropicciate ai piedi dell’armadio. Le afferro, le avvicino al volto e ci sprofondo dentro, per ritornare all’odore sporco del sesso. Oggi sono stato suo.

La raggiungo in balcone, mi guarda, mi sorride, le sorrido.



– Lo vuoi un tiro?



Alla mia età, nonno fumava le Nazionali senza filtro già da undici anni e avrebbe continuato per i cinquanta a venire, fino al giorno in cui un dolore cieco l’ha colpito tra la spalla e il cuore. Quella mattina si era alzato prima del sole, aveva pisciato dimenticandosi di alzare la tavoletta e seduto al tavolo della cucina accese una Camel light blue, inconsapevole che sarebbe stata la sua ultima sigaretta.



– Lo vuoi un tiro?



Oggi, nonno non c’è più. E io ho smesso di fumare.






Nicolò Bellon è nato a Biella nel 1998.

Aspira all'incendio - Nicolò Bellon - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Aspira all’incendio”, un racconto di Nicolò Bellon per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni