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illustrazione Cattivo sangue - Antonio Giugliano - SPLIT - Pidgin Edizioni

Cattivo sangue

Tutto era cominciato una notte che avevo sognato di passeggiare, nudo, su un molo lunghissimo. Era fatto di pietra vulcanica nera, e come un’ultima lingua sottile di terra avanzava in un mare scuro, gonfio. Il cielo era rosso e mi accorsi che non c’erano più gabbiani, anzi non c’era alcun segno di vita. Solo questo molo, un mare ora silenzioso e irreale, senza vento, senza rumori, come se fosse sospinto a gonfiarsi da sotto, dalle viscere della terra. Sentivo il mio respiro forte mentre avanzavo, avrei voluto ma non potevo più tornare indietro. Ero soffocato da un turbamento infinito che sconfinava nel terrore. Alcune onde nere, dense come catrame, arrivavano a lambirmi i piedi. A un tratto, lontano, ancora più lontano nel mare infinito, scorsi qualcuno seduto, o almeno così mi sembrava. Affrettai il passo. Il cuore mi batteva all’impazzata. Quasi correvo, perché avevo la speranza che raggiungendo quell’uomo avrei trovato un rimedio all’angoscia feroce che stavo provando. Con il cuore in gola percorsi gli ultimi metri. Un uomo mi dava le spalle. Si alzò, poi si girò verso me. Taceva, io pure. Si sbottonò la camicia macchiata di rosso, e da uno squarcio enorme che aveva sotto lo stomaco iniziò a cavar fuori le sue budella, sfilandole come una catena, lentamente. Aprì la bocca in una smorfia atroce e chinò la testa come per dirmi Guarda che hai fatto! Guarda!, ma io non avevo fatto niente e non capii a che si riferisse.

Continuò a mollare gli intestini. Erano scuri, neri, raggrumati di sangue marcio. Nell’aria si spandeva un tanfo insopportabile di merda e di carogna. Mi fissò in segno di sfida mentre io non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi che parevano di vetro. Le interiora caddero in mare come una catena calata da una barca, e dall’acqua uscirono dei pesci che cominciarono ad azzannare le povere viscere in quella specie di olla podrida, schiumosa, ribollente, oscura. L’uomo si torse per il dolore e volse lo sguardo verso l’acqua, per farmi fissare quelle bestie orribili che stavano straziando il suo corpo. Provai una pena indicibile, un rimorso assurdo e insopportabile, allora mi tuffai in mare gridando che mangiassero me, me, me, me, me, me!



Da quella notte non riuscii più a dormire.

L’orologio a fasci luminosi rossi stampò sul soffitto le 03:43, con i due punti che sparivano e riapparivano a intermittenza. Non ero capace di staccare gli occhi: 03:44, 03 44, 03:44, 03 44…

Il giorno dopo convinsi il medico a prescrivermi dei sonniferi. Al mattino però la bocca sapeva di amaro, la lingua era ispessita, avevo una gran sete e la sensazione di essermi ridestato da qualcosa che pareva la morte.

Cominciai a sentirmi lucidamente pazzo, non ne potevo più. Così una notte decisi di vivermi l’insonnia e anziché prendere quei medicinali che non davano la pace. Andai al mare: la spiaggia era deserta ma la luna piena illuminava malefica la spuma delle onde. Nella sabbia intravidi, poco lontano da me, un riflesso di luce. Mi avvicinai. Era un grosso coltello dalla lama larga e seghettata in punta, col manico di plastica nera, rugosa una lama da sub, ben equilibrata, funzionale, pratica, con un suo peso specifico. La presi e risalii in macchina, non senza essermi guardato intorno con circospezione, nel timore assurdo di essere stato notato da qualcuno. La posai sul pavimento davanti al sedile del passeggero e sentii che così mi faceva compagnia.

Mi diressi verso un bar che restava aperto tutta la notte. Quando scesi dalla macchina diedi un occhiata all’arma per assicurarmi che non si muovesse da lì. Scesi a un bar e presi un caffè doppio, poi me ne andai sul lungomare e sedetti su una panchina.

Me ne stetti un po’ a guardare l’Oscuro di fronte a me senza pensare a niente. Non era molto, ma di sicuro meglio di stare impotente a letto. Avevo con me il coltello e lo tenevo nascosto sotto il leggero pullover che indossavo. Fingevo di avere una mano sullo stomaco, in realtà accarezzavo la lama e il manico. Mi dava una sensazione bellissima. Di freddezza. Di potenza.

La notte schiarì e giunse l’alba. Il mare sembrava adesso un gigante incatenato color piombo: fosse stato per lui sarebbe schizzato e finalmente avrebbe raggiunto quel cielo fottuto lassù in alto, distante, beffardo e crudele.

Un uomo in tuta stava passeggiando sulla battigia e guardava l’alba. I gabbiani starnazzavano come oche stupide. Gli corsi vicino all’improvviso, mi misi di fronte.

– Alberto! Ti ricordi di me? – gli chiesi avvicinandomi.

Il suo volto mostrò un espressione stupida.

− Chi sei?

Ma prima che potesse reagire, gli affondai il coltello in corpo: uno, due, cinque colpi. Ogni volta lo rigirai dentro la carne. La prima coltellata era stata negli intestini perché volli che si mescolasse la merda con il sangue, che questi due odori si miscelassero nell’aria che sapeva di mare e arrivassero alle mie narici. Ci vorrebbe un trattato di fisiologia psichica, o psicologia fisica, per spiegare il significato di tutto questo, semmai esiste almeno una di queste discipline all’università. I suoi occhi tradirono paura, e mentre già di nuovo affondavo il coltello nel suo stomaco la bocca farfugliava stupidamente che lui non era “Al… bert…”.

Era indietro rispetto alla sua morte, io in anticipo sul suo sentimento.

– Lo hai capito che stai morendo, stronzo? – gli chiesi, ero esaltato. – Lo hai capito? Eh? Stronzo! Stronzo, stronzo, stronzo!

Ero pazzo di lui! Ero diventato il suo padrone, il suo destino, e non stava avendo nemmeno il tempo di rendersene conto! Estrassi l’arma dal suo corpo e l’affondai ancora, senza più preoccuparmi di dove andasse a finire, poi di nuovo nello stomaco, credo, e intanto lo guardavo fisso negli occhi. Ah, mi beai di questo!

Tutto stava accadendo a una velocità pazzesca e io ne ero l’artefice. Ero al polo opposto della sua attitudine vitale. All’ennesima coltellata i suoi occhi espressero pietà, si rannicchiò, si appoggiò a me. Quasi parve implorare le ultime coltellate. Cadde.

Diedi un ultimo sguardo a quel corpo squartato. Gli uscì gorgogliando un rivolo di sangue dalla bocca, tra i denti. Rantolò, ebbe un ultimo sobbalzo nervoso, poi più niente. Godetti!

Non era durato trenta secondi. Cos’è una vita? Non è niente. Provai soddisfazione nel vedere le mie mani insanguinate sul volante, sulla leva del cambio. Sentii le ruote che stridevano sull’asfalto. Fuggivo, correvo, il motore rombava. Arrivai a casa, mi spogliai e mi buttai nella vasca. L’acqua si fece rossa. Mentre mi stavo asciugando mi resi conto che l’emozione era ancora così forte da scatenarmi un’erezione imperiosa. Mi misi di fronte allo specchio grande, in camera, e cominciai a masturbarmi. Guardai riflessa la mia mano che andava su e giù sul mio membro. Lentamente, su e giù, scivolante, decisa, comprensiva, esperta.

“Ora il coltello è il mio cazzo” pensai, mentre il cuore mi sobbalzava ancora una volta in gola.

Con occhi chiusi, mentre me lo accarezzavo, mi rividi nella testa ciò che era accaduto. Il momento in cui mi ero avvicinato e avevo affondato il coltello nella sua merda. Rievocai il suo volto stranito: i suoi occhi impauriti non li avrei mai dimenticati. Ricordai il susseguirsi cieco delle coltellate, la violenza spietata, la sua emozionante debolezza. Alla fine, in un parossismo folle d’eccitazione (su e giù, su e giù, su e giù, più in fretta sempre più in fretta, sempre più duro, sempre più prossimo a esplodere!) rividi il momento in cui era caduto a terra colpito a morte, e in quell’istante raggiunsi l’orgasmo.

Lacrime dense, biancastre, colavano a fiotti lungo la superficie riflettente, bianche, opache.

Mi sdraiai sul letto. Accesi una sigaretta. Ero sorpreso di non provare alcun rimorso. Piuttosto, la sensazione di una nuova consapevolezza stava facendo capolino nella mia coscienza. Quella di poter essere per sempre padrone della vita e della morte. Come un dio! Mi stavo rendendo conto che quello che avevo fatto cambiava completamente e definitivamente il mio rapporto con il mondo, con la vita, con gli altri. Come se mi fossi impresso un marchio a fuoco, non superficialmente sul corpo, bensì nell’anima, nello spirito, un marchio indelebile nella profondità del mio essere. Mi addormentai per qualche ora.

La sera successiva, in un club, versai della birra nel sax di un musicista famoso perché secondo me non stava suonando un buon jazz. Io sapevo che cos’era il jazz! Avete mai saputo cos’è il jazz? No, non potete saperlo. Il jazz non è musica, è Arte, e l’Arte o è assassinio o non è. I buttafuori mi cacciarono a calci in culo. Tornai a casa e mi gettai sul letto. Avevo compiuto la mia iniziale opera d’arte. Di colpo fui consapevole di chi ero e che cosa aveva voluto dirmi quel sogno.

E per la prima volta dopo mesi dormii.






Antonio Giugliano ha pubblicato i romanzi “Love kaputt” (2017) e “La valigia del venerdì”(2020). Alcuni suoi racconti sono stati accolti in antologie cartacee e diverse riviste letterarie online, tra le quali “Crapula club” e “L’Irrequieto”. Per il mese di febbraio 2022 è prevista l’uscito del suo ultimo romanzo, “Topi”.

illustrazione Cattivo sangue - Antonio Giugliano - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Cattivo sangue”, un racconto di Antonio Giugliano per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni