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illustrazione Medusa - Marco Cantoni

Medusa

come quella volta in cui abbiamo animato la fila al cesso del teatro Camploy cronometrando le pisciate con tutti che ci davano corda e senza di noi lo spettacolo avrebbe fatto ancora più schifo di quanto non abbia fatto realmente» diceva lui alla mia sinistra con una signora che si sbilanciava per tirare giù il gigantesco trolley rigido dalla cappelliera e i freni fischiavano sulle rotaie bagnate dalla pioggia autunnale con la nebbia che mi impediva di leggere il cartello della stazione ma sarà stato un paese sperduto tra Venezia e Verona e chissenefrega tanto eravamo partiti da un’ora scarsa e sicuramente quella non era Porta Nuova e poi quell’aneddoto me lo ricordavo benissimo che ancora ridevo orgoglioso e il mio amico lo sapeva perché lo era anche lui giustamente ma qualcosa ruppe il fiume di ricordi che rendevano il regionale meno freddo perché c’era una ragazza seduta sul lato del corridoio tre file avanti che si stava levando la sciarpa di lana a maglie grosse posandola sul sedile vuoto al suo fianco e non l’avevo neanche vista in faccia ma non riuscivo a smettere di fissare la sua nuca biondo cenere anzi la sua mezza nuca biondo cenere coperta per metà dal sedile blu di Trenitalia e la ragazza tirò fuori dalla borsa un libro un vecchio libro non arrivavo a vedere il titolo ma era un’edizione Mondadori di una volta quelle con la testa di medusa in copertina bianca con la cornice verde quelle edizioni che non si trovano neanche sulle bancarelle dell’usato forse in qualche biblioteca di paese oppure nelle librerie antiquarie mentre i capelli lunghissimi di lei si piegavano sulle pagine per leggerle meglio impedendomi di decifrare titolo e autore quando la signora del trolley di prima attraversando il corridoio per uscire dalla carrozza ruppe il contatto visivo e tornai a guardare il mio amico che non aveva smesso di parlami e neanch’io di ascoltarlo «e hai visto il nuovo tatuaggio di T?» e io feci di no con la testa ma la mia mano destra impugnava già l’iPhone che dovetti guardare per sbloccarlo e scrollando le storie mi fermai tenendo premuto sul pube di una tipa per bloccare l’immagine e gli chiesi davvero e lui mi disse che davvero e mentre quel poco di speranza nell’umanità tutta abbandonava il mio corpo il fiume di contenuti effimeri di Instagram ricominciò a scorrere tentando invano di cancellare dalla mia memoria la scritta in corsivo Pinterest style wildflower pochi centimetri sopra il suo inguine il soggetto più gettonato del suo profilo social ma il corpo è suo e può farci ciò che vuole dissi e lui fece sì con la testa e ricominciò a parlarmi di qualcos’altro ma il pendolino ipnotico delle storie automatiche mi aveva incantato con il pollice che eseguiva lo zapping 2.0 o forse 3.0 chissenefrega finché non dovetti fermare di nuovo la corrente visiva perché un suono mi aveva risvegliato e questa volta non erano i freni ma una suoneria una di quelle personalizzate che già in pochi secondi riesce a far morire di vergogna chiunque la ascolti qualcosa che non sentivo da almeno un decennio e mi chiesi chi usasse ancora suonerie di quel tipo negli anni ’20 e a ragionarci bene non conoscevo anima viva che tenesse il cellulare in una modalità che non fosse silenzioso e nel frattempo nessuno rispondeva a quella chiamata costringendo il mio amico e tutto il resto della carrozza ad aumentare il volume della voce per coprire in qualche modo l’imbarazzo quando un signore sulla sessantina forse cinquantina chenneso strisciando delle scarpe troppo lucide per quel contesto così opaco fino al tavolino dov’era posata la fonte del rumore collegata alla presa di corrente interruppe quel concerto neo-melodico abusivo senza neanche ridestare il proprietario dal suo coma finalmente dissi io finalmente disse il mio amico mentre il nostro salvatore tornando al posto ci sorrise e io tornai con lo sguardo alla ragazza di prima che non si era mossa di un millimetro come se la medusa della copertina l’avesse trasformata in statua «ma secondo te domani devo fargli il regalo di laurea anche se ne ho già sganciati cinque per quella merda di papiro?» basta che alla festa ti presenti sul tardi con tutti ubriachi pronto a dare pacche sulle spalle e a comparire in foto a caso gli risposi non perdendo la concentrazione testando i miei poteri telecinetici ma la ragazza non si mosse lo stesso e non mi accorsi nemmeno che il treno era di nuovo fermo e nella carrozza c’era stato un rapido turnover accompagnato dall’arrivo del controllore che era una donna con il foulard in acetato tempestato da briciole di cracker arancioni forse al gusto pizza che avrei mangiato volentieri essendo digiuno dalla mattina e per mostrale il biglietto tirai fuori di nuovo il cellulare che dopo il suo cenno del capo rimase nella mia mano con una notifica push che si sbracciava sul display alla ricerca della mia attenzione e quando la trascinai sulla destra mi portò a un video mandato in un gruppo Whatsapp che guardai senza volume per timore che il sessantenne o cinquantenne di prima si alzasse di nuovo e solo allora mi accorsi che non c’era più e al suo posto c’era una famiglia indiana con bambini rumorosi molto rumorosi e pensai beato lui mentre fuori dal finestrino non c’era nulla e pensai che quel viaggio sarebbe stato eterno finché uno dei bambini si mise a correre per il corridoio sfidando la madre a inseguirlo come un torero nell’arena e quando la signora si alzò lui seppe di aver vinto di aver raggiunto il suo obiettivo e allora pensò di alzare la posta di rischiare un po’ di più di vedere chi frenava per ultimo e si sedette a fianco a un uomo che non avevo neanche notato uno normale come se normale fosse una descrizione accettabile come se la normalità fosse una caratteristica un uomo con una barbetta mediocre che indossava un maglione beige mediocre e che era chino sul suo smartphone a guardare una puntata di una serie Netflix forse Sex Education viste le buffe scopate che scorrevano sullo schermo crepato nell’angolo destro superiore e nel mentre si leccava ripetutamente il dito indice sul dorso proprio dove l’unghia si innesta nella pelle quel sottile confine dermatologico che quell’uomo trovava particolarmente gustoso e ogni volta che la falange usciva umidificata di saliva l’uomo la rimirava orgoglioso e se si stava attenti si poteva sentire lo schiocco prodotto dalle labbra nel rilascio del dito e il bambino lo fissava e l’uomo continuava a ignorarlo quando la madre raggiunse il figlio provando ad arpionarlo ma non riusciva a schiodarlo da quel sedile niente da fare allora la donna iniziò a ondeggiare chiedendo scusa all’uomo passando il peso da una gamba all’altra che era un’espressione di cui non avevo mai capito realmente il significato fino a quell’istante tanto che mi disinteressai nuovamente perché la mia attenzione tornò sulla ragazza che aveva interrotto per un attimo la lettura disturbata dal trambusto e la mia retina registrò un’unica immagine di lei del suo viso prima che si voltasse nuovamente chiudendo il sipario sul suo volto e fu così veloce che non ero neanche sicuro fosse successo realmente e avevo quasi il dubbio di essermelo immaginato come un messaggio subliminale inserito per gioco tra un fotogramma e l’altro dal sadico montatore della mia esistenza ma il tempo è un bastardo e tutto cambiò di nuovo nessuna traccia della famiglia indiana nessuna traccia del leccatore e a distrarmi furono due amiche che si alzarono per non perdere la fermata e una delle due quella con gli occhiali mi diceva sei un pezzo di me sei un pezzo di me sei un pezzo di me e io ero perplesso e solo quando vidi degli EarPods uscirle dalle orecchie capii che stava cantando un pezzo di Levante e non si riferiva a me allora tornai al libro della medusa alle pagine che venivano sfogliate pagine ingiallite pagine consumate con la costina logora e raggrinzita che si lasciava andare abbandonandosi tra le mani della ragazza che le scorreva ogni volta come se fosse l’ultima dettando il ritmo di lettura con il medio che batteva sul dorso e in tutto questo il mio amico che continuava a parlare nonostante avesse capito di non possedere più la mia attenzione convinto però che lo avrei raggiunto appena possibile alla successiva fermata di quella corsa a tappe che possono essere le conversazioni tra amici fraterni poi i freni gridarono un’altra volta ma adesso non me ne fregava nulla della stazione perché la medusa era tornata a guardarmi quella sulla copertina del libro che veniva riposto nella borsa e poi la sciarpa a maglie larghe di lana intorno al collo il bavero del cappotto le scarpe che facevano capolino dallo spiraglio di corridoio la medusa se ne stava andando senza rivolgermi lo sguardo senza trasformarmi in pietra scomparendo nel buio solo il tempo di impugnare il mio scudo per catturarne il riflesso per scattare una foto che però non ebbi il coraggio di guardare e che cliccando il cestino rosso stilizzato sparì come la ragazza e le porte si chiusero e tutto ripartì e ritornai al discorso del mio amico e non era successo niente





Marco Cantoni, nato il 13 gennaio 1994. Laureato in Ingegneria Elettronica e delle Telecomunicazioni all’Università degli Studi di Trento. Dal 2017 ha un canale YouTube in cui parla di libri: https://www.youtube.com/channel/UCjHua9fG2994__pHyFwf9_w

illustrazione Medusa - Marco Cantoni
“Medusa”, un racconto di Marco Cantoni per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni