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Servizio in camera

(Racconto tratto dal magazine New York Tyrant di Tyrant Books.
Traduzione dall’inglese di Stefano Pirone.)

 

Nella nostra notte di nozze, David mi mostra cosa serve per uccidere un uomo. Nella stanza d’albergo, siamo stesi sul letto matrimoniale formato “California King”, le mie calze scivolose contro le lenzuola bianche immacolate. David apre il suo portatile e naviga su un sito pieno di filmati come questi: un video di un uomo che viene bruciato vivo in una gabbia, col corpo che diventa teso e nero; un video di un uomo che viene sparato alla testa, e la nuca gli esplode in una cavità delle dimensioni di un pugno. Ci sono molte cose che non so del mio nuovo marito. Mi guarda quando ferma il video. I suoi occhi sono leggermente itterici e schivi come quelli di un animale da fattoria, espressivi e docili.
Faccio finta di guardare, ma concentro lo sguardo sull’intricata bordatura del mio abito da sposa appoggiato su una sedia nell’angolo. Mi fanno male i seni. L’uomo sullo schermo strilla e uno strato di pelle d’oca appare sulla mia pelle. Mi sento colma di qualcosa di morbido e nuovo e vorrei piangere, ma non esce nulla. Qualsiasi cosa sia, non è ancora pronto. Immagino il funerale, la bara aperta, la testa dell’uomo ricucita dove il proiettile è fuoriuscito, incavata come la fontanella di un neonato.

Una volta mia sorella mi ha chiesto di badare al suo bebè. Non avevo mai avuto a che fare con i neonati, prima di allora. Ho appoggiato il bebè sul letto per cambiare il pannolino e mi sono voltata giusto per un secondo. Il freddo tonfo del suo corpo contro il parquet mi ha paralizzata, mentre aspettavo che scoppiasse a piangere. Prima di voltarmi, in quella frazione di secondo di silenzio, ho immaginato che fosse morto, che mia sorella non mi avrebbe mai perdonata e che sarebbe rimasta devastata per sempre dal lutto. Ma il bebè non era morto. Se ne stava semplicemente seduto lì a non fare niente. Ho guardato il bebè e il bebè ha guardato me.

Prima il bebè ha detto Mamamamamamama.

Poi il bebè ha detto Papapapapapapa.

Poi il bebè ha detto Oh-do, oh-do, oh-do, UGH, se-se-se-se-se-se-se-se-se.

Sono rimasta lì a osservare quel linguaggio che prendeva forma nella sua bocca. Come una sillaba fosse connessa a ogni emozione, la pa connessa a emozioni intense e la ma a emozioni calme. Quando il bebè ha provato a muovere il suo corpo bitorzoluto, ha scalciato con forza le gambe nell’aria e ha sbattuto la testa e non è successo nulla.

Nella nostra stanza d’albergo, David si sfila i pantaloni neri e le sue nuove scarpe lucide e li appoggia direttamente sul mio abito. Non dico nulla sulle scarpe sopra al vestito perché l’ho comprato dall’Esercito della Salvezza per meno di venti dollari e aveva già macchie gialle sui merletti sotto le ascelle chiazze marroni sullo strascico.
Mi raggiunge nel letto e infila la mano in una busta di patatine. Le mangia una alla volta, spazzando via le briciole dal copriletto prima di passare a un altro video sul suo portatile.

«I film rendono sterile la morte,» dice. «Nella violenza c’è molto più sangue di quanto tu creda.»

Sorseggio lo champagne da un flûte di plastica durante la riproduzione del video. È tratto da una serie chiamata “Poliziotti contro la gente.” A volte la gente vince, ma per lo più vincono i poliziotti. In uno di questi video, un uomo di Los Angeles riceve l’ordine di lasciar cadere la pistola mentre si trova impalato sull’uscio della sua casa, quattro torce puntate su di lui, quattro poliziotti dietro la videocamera. L’uomo esita, poi getta l’arma a terra, lanciandola dal basso verso l’alto. Qualcuno sguinzaglia un’unita K9. Mentre il pastore tedesco si fionda verso l’uomo, un poliziotto spara, e poi tutti gli altri sparano.

I poliziotti svuotano i loro caricatori sull’uomo e sul cane.

David dice, «Fanculo Los Angeles.»

«Perché?» chiedo.

Faccio un sacco di domande a mio marito.

David dice che i poliziotti di Los Angeles hanno il grilletto facile. Che una volta gli hanno puntato una pistola contro dopo essere stato fermato in auto per un controllo di routine.

«Cosa ci facevi a Los Angeles?»

Gli angoli della sua bocca tremano.

«Niente,» dice. «Sono andato a comprare una macchina.»

Si sbottona la camicia e se la toglie, e io strofino le mani lungo la sua schiena, sentendo al tatto il rilievo delle cicatrici della rete metallica tatuata sulle sue scapole. Ci sono tre lettere nel tatuaggio, abbreviazioni o iniziali. Non vuole dirmi cosa significano.

Tre settimane fa, gli ho offerto un posto dove stare quando ci siamo conosciuto a una farmacia CVS. Stavo presentando una prescrizione per l’Ativan e lui stava comprando del Bronkaid e compresse alla caffeina. Qualcosa nella forma del suo corpo mi suggeriva che avesse compiuto cose orribili. Avevo sempre voluto frequentare un uomo che pensavo che avrebbe potuto uccidermi.

L’albergo è il posto più bello in cui abbia mai dormito e, mentre muovo le gambe sulle lenzuola, so di non essere degna di loro. Non chiedo a David quanto sia costata la stanza o come l’abbia pagata. Si accende una sigaretta e io faccio un altro sorso di champagne e gli chiedo una sigaretta. Mi porge quella che ha appena iniziato, ruotandola come faresti nel porgere a qualcuno un coltello affilato, dalla parte del manico. Prendo la sigaretta e lui se ne accende una per sé. Lo guardo pulirsi l’unto delle patatine sulle lenzuola bianche immacolate prima di toccare i tasti del portatile.

La bottiglia di champagne è quasi vuota. Chiedo a mio marito se gli sta bene chiamare il servizio in camera per ordinarne un’altra e lui risponde, «Sì, piccola, ma prima dobbiamo spegnere le sigarette.»

Prendo il cuscino dal letto e lo stringo sul petto. «Perché hanno svuotato l’intero caricatore?» chiedo. Mio marito dice qualcosa sui proiettili da nove millimetri e su come siano inutili. Mi appoggia una delle sue grosse mani sulla pancia e poi manda indietro il video dell’uomo di Los Angeles. Lo fa andare di nuovo, fotogramma dopo fotogramma.

Qui è quando l’uomo lascia la pistola, qui è quando la pistola è a tredici centimetri dalla sua mano, quando un poliziotto sguinzaglia il pastore tedesco, quando un poliziotto spara per primo. Qui è quando tutti gli altri sparano, e poi l’uomo crolla a terra con le gambe all’aria; e qui è troppo buio per vedere cosa sta facendo il cane ma noi sappiamo che il cane è morto.

David dice, «Vedi a cosa serve un plotone di fucilazione? Fa’ sì che tutti sentano di aver ucciso ma allo stesso tempo li assolve dal sapere chi l’ha fatto, chi ha ammazzato effettivamente.»

Quando prendo troppe pillole, sono avvolta dalla sensazione di sprofondare. Quando mi stendo, affondo nel letto più in profondità. Sono stesa sul pavimento, sotto il pavimento, e mi sento soffocare. Ma il soffocamento non è claustrofobico. È una sensazione confortevole, come in un utero. «Pensi che riescano a sentire la vita che li abbandona?» chiedo.

Sposta la mano sul mio petto e mi afferra una tetta, gonfia come una pesca noce. «Il cervello va in ripetizione automatica,» dice. «La scossa fa muovere il corpo, quindi, anche mentre sta morendo, non sa di star morendo.» Massaggia in circoli con il pollice, ma non gli dico nulla anche se fa un po’ male.

Il servizio in camera bussa alla porta e io salto per il rumore. Spegniamo le sigarette e David toglie il chiavistello e apre la porta nudo. Torna con la bottiglia e la apriamo, facendo a turno a bere reggendola per il collo. Prende l’Ativan dalla mia borsa e ne ingoia uno. Io afferro il menu del servizio in camera e sbriciolo una pasticca mentre guardiamo nuovamente il video.

Penso a mia sorella e a come, una volta che la vita è andata, è andata. A come ci assumiamo rischi senza renderci conto esattamente che sono rischi, a come la morte possa venire a prenderci in qualsiasi momento. Il dolore alla tetta persiste e penso al bambino che già sono cosciente di avere dentro di me. Mi tocco la pancia mentre guardo l’uomo che muore sullo schermo.

E l’uomo sullo schermo dice Mamamamamamama.

E l’uomo sullo schermo dice Oddio, oddio, oddio, UGH, se-se-se-se-se-se-se-se-se.

E l’uomo sullo schermo scalcia e scalcia ancora, e poi scalcia per un’ultima volta.

 

 

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Elle Nash è l’autrice del romanzo “Animals Eat Each Other”, pubblicato da Dzanc Books nel 2018. Leggi la versione originale di questo racconto sul sito di New York Tyrant: http://magazine.nytyrant.com/room-service-elle-nash/

“Servizio in camera”, un racconto di Elle Nash