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Pesca - Zoe Dubno - New York Tyrant + Pidgin Edizioni

Pesca

Racconto tratto dalla rivista “New York Tyrant”.
Traduzione dall’inglese di Stefano Pirone.


Paul mi fece scendere alla spiaggia e mi disse che mi avrebbe raggiunto dopo essere andato a casa a congelare le esche. Quando aveva detto “spiaggia” non mi aspettavo un letto di pietre appuntite, ma evidentemente ignoravo che esistesse un dialetto del Maine. Decine di persone in costume da bagno si erano congregate sulla costa scoscesa, e le loro sedie e i loro teli guardavano un oceano glaciale e senza onde. Barcollai verso la battigia sui miei mocassini, mi sedetti su una roccia al sole e mi spogliai.

Mi sdraiai e mi misi a leggere una copia di Jane Eyre che avevo preso dal tavolo dei libri gratis nella biblioteca del paese. Passai direttamente alla fine, dove Jane ritorna dal suo precedente fidanzato, Mr. Rochester, dopo aver scoperto che non era colpevole dell’inganno che l’aveva spinta a scappare dalle nozze. Ora lo ritrova cieco, ferito e ancora innamorato di lei.

Ogni poche pagine volgevo lo sguardo sull’oceano e ragionavo se tuffarmi, ma desistevo davanti alla vista dei bagnanti che sussultavano e tremavano. Quando Paul arrivò, avevo raggiunto la parte in cui Jane stuzzica Rochester con una simulata indifferenza, suggerendo maliziosamente che riprendessero la loro relazione come amici, pochi istanti dopo che il ritorno della protagonista ha scatenato in lui delle lacrime estatiche. Avevo ridacchiato in maniera incontrollabile quando avevo letto per la prima volta questo passaggio alle superiori, provando tantissima eccitazione per Jane, una vergine femminista arrogante sulla quale potevo rispecchiarmi.

Paul rimase sorpreso dal fatto che non fossi ancora andata a nuotare e mi comandò di seguirlo verso l’acqua. Ci bagnammo i piedi sulla battigia ma eravamo riluttanti a immergerci interamente nell’acqua gelata e poco profonda. Paul me ne gettò un po’ sul collo, per leccarla via più tardi, disse.

«Devo farti togliere il sapore di New York di dosso.»

Lessi il finale di Jane Eyre ad alta voce mentre lui era steso su un’altra larga roccia sotto la mia.

«Sono orribile, Jane? chiese Mr. Rochester,» feci una pausa. «Sì, molto. E lo siete stato sempre, lo sapete.»

Abbassai gli occhi verso Paul e ci sorridemmo a vicenda. Una folla si era radunata attorno mentre leggevo. Una donna bionda sulla trentina con una cicatrice sul volto, un uomo anziano con un viso attraente, due bambini biondi e il padre, seduti su grosse pietre sotto la mia. Mi sentii consapevole del fatto di indossare soltanto reggiseno e mutande, il cotone dei quali per qualche motivo dava una sensazione differente rispetto a un costume della stessa forma, e mi sforzai di coprire la mia nudità con il libro mentre continuavo a leggere.

«È davvero delizioso avere qualcuno che legga per te,» disse l’anziano a Paul quando ebbi finito.

«Pare che potresti offrire un servizio, qui,» mi disse Paul.

«Io mi iscriverei,» disse l’uomo.

Paul si alzò e si sedette accanto a me sulla roccia.

Osservammo l’anziano uomo attraente che entrava in mare.

«Non amate anche voi Jane Eyre?» disse la donna con la cicatrice in volto.

«Una corbelleria,» disse Paul, «un’assoluta corbelleria.»

«Quella che hai appena sentito è la ricompensa emotiva di trecento pagine di frustrazione,» dissi, guardando la donna per avere il suo supporto. «È ammissibile che sia sopra le righe.»

«È un’adorabile corbelleria, bimba,» disse lui, piazzandomi un braccio attorno alla vita. «Andiamo a casa.»

Dividemmo una birra al gusto lampone, facemmo sesso sul pavimento, poi un pisolino, una doccia, ci vestimmo e andammo a cena. Eravamo in anticipo rispetto alla nostra prenotazione, quindi quando Paul vide del movimento nell’acqua che faceva pensare a una spigola, accostò. Scavalcammo il guardrail su un ponte e ci calammo giù per rocce scoscese fino a un punto in cui lui potesse lanciare la lenza. Non prese nulla.

Il ristorante era una fattoria con tavoli da picnic disposti negli spazi tra i terreni coltivati. Servivano pizza da un forno di mattoni, insalata dal proprio orto e soffice gelato in coni di waffle. Sembrava il genere di posto che poteva trovarsi a Brooklyn o Los Angeles, solo che qui erano tutte persone di mezza età con bambini e mal vestite.

«A cosa pensi?» chiese lui.

«Non so,» risposi.

Mi baciò la fronte.

La nostra cameriera era la donna della spiaggia. Quando ordinammo, lei disse «Una pizza per Jane Eyre,» e pensai che si stesse prendendo gioco di me finché non si complimentò per la mia voce di lettura e disse di accorgersene quando sentiva una brava oratrice, dato che lei un tempo era una bibliotecaria.

«Sai, la trovo molto bella,» dissi a Paul dopo che la cameriera si allontanò.

«È stata investita da un’auto. Ha della ghiaia conficcata nella faccia.»

«Ah, pensavo che fossero lentiggini.»

«E in più,» aggiunse, «solitamente agli uomini non piacciono le donne con i baffi.»

Dopo la cena una cameriera diversa, grassottella, ci chiese se volessimo del gelato. Parlò a manetta e con entusiasmo dei pro e dei contro di ordinarlo al cioccolato, a vaniglia o a spirale. Quando scegliemmo il gelato a spirale, urlò che la nostra era stata una scelta eccezionale. Io e Paul mangiammo il gelato mentre camminavamo lungo la superstrada verso un campo da calcio vuoto. Era il crepuscolo e le lucciole avevano appena iniziato a illuminarsi.

«Quella ragazza era fatta a speed o cosa?» chiese Paul.

«Non era fatta a speed,» risposi. «Troppo grassa.»

Tornati al suo appartamento, Paul si stese sul pavimento ai piedi del letto e mi disse di mettere della musica.

Andai al mio computer e aprii l’app di streaming musicale. I ventiquattro anni che ci separavano non erano mai più stressanti di quando mi era affidato il compito di scegliere la musica. Le band indie degli anni Novanta, che erano sempre una scelta sicura con i miei amici, erano le canzoni della sua gioventù. La roba contemporanea era impossibile. I veri classici solitamente funzionavano ma potevano essere triti e ritriti.

«Cosa dovrei mettere?»

«Sii decisa, bimba.»

Misi del rock psichedelico nigeriano degli anni Settanta e lo raggiunsi sul pavimento, dove era disteso su una pelle di pecora marrone posata sopra un tappeto orientale blu, e teneva in equilibrio sul suo ampio torace un bicchiere da succo di frutta pieno di vino rosso. Disposi il suo corpo in una posa yoga tonificante, accostando i suoi piedi, il che fece in modo che le sue gambe spesse si aprissero a farfalla. Usai dei cuscini del divano per sorreggere in alto le sue ginocchia, e montai su una delle sue cosce, appoggiando il petto sull’altra per accentuare lo stretching.

«Farei stretching tutti i giorni,» disse, «se ci fosse una bella ragazza giovane che mi premesse il seno sulle gambe.»

Mi misi sulle ginocchia ai piedi del letto e lui mi sfilò i jeans bianchi. Gli chiesi di spegnere la musica. Quando mi baciò, riuscii ancora a sentire il sapore del cono di waffle. Gli dissi di non venire finché non avessi urlato e poi dopo un po’ emisi un mugolio e lui mi chiese se quello fosse un urlo e gli dissi di sì.

Con la testa appoggiata sul suo torace, gli dissi che mi piaceva.

«È una bella cosa, bimba,» rispose.

«Oh, ma dai,» dissi.

«Cosa vuoi che dica?»

«Lascia perdere.»

Guardò il suo orologio.

«Sta arrivando la marea. Dovremmo andare ora se vuoi catturare un calamaro.»

Espirai in maniera non udibile.

«Mi sembri nuda,» disse.

«Sono nuda.»

«Intendo, emotivamente nuda.»

«Oh. Sì.»

«Beh, allora non dire cose del genere.»

«Vaffanculo,» risposi.

«Normalmente non sei così. Ti stai comportando proprio da ragazzina. Sembra come se avessi il ciclo.»

«Sai cosa,» dissi, esitando per un momento, «mi sta per venire, probabilmente sarà quello.»

Mi ritirai dalle sue braccia e andai imbronciata all’armadio dove indossai i miei pantaloni da tuta sporchi di fango. Lui accese la luce mentre io pensavo alle cose che avrei potuto fare per ferire i suoi sentimenti.

Guidammo fino allo yacht club con un nome indiano difficile da pronunciare e facemmo a turno a lanciare le lenze dal pontile. In uno dei miei lanci, il filo si impigliò, avvolgendosi in un groviglio delicato di inutile polietilene traslucido. Passai la canna a Paul, che la sbrogliò, irritato e sospirando. Lo fissai mentre lavorava.

«Cosa c’è?» chiese.

Alzai le spalle.

Dopo un po’ di tempo senza che nulla abboccasse, decidemmo che era il momento di arrendersi.

«Nessun calamaro,» dissi.

«C’è un motivo se lo chiamano “pescare” e non “catturare,”» disse, riavvolgendo l’ultima delle sue lenze.




Leggi l’originale in lingua inglese sul sito di Tyrant Books: http://magazine.nytyrant.com/fishing-zoe-dubno/

Pesca - Zoe Dubno - New York Tyrant + Pidgin Edizioni
“Pesca”, un racconto di Zoe Dubno tratto dalla rivista New York Tyrant e tradotto da Pidgin Edizioni