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Pezzi mancanti

Il caffè alla fine venne su. Lara spense il fuoco, sollevò il coperchietto di metallo e rimase a osservare i fiotti scuri che sgorgavano dal beccuccio centrale. Poi si versò una tazza, ci aggiunse un po’ d’acqua del rubinetto e guardò fuori.

Il cortile era invaso da erbacce e attrezzi. Anche le siepi erano aggrovigliate, irte di spine. Le ricordò La bella addormentata nel bosco. La sua tomba sarà una foresta di rovi, folta e intricata che nessuno la scovi. Ma la sua non era una tomba, e lei non era bella. Si girò verso il cortile del vicino. Era identico, però senza foglie. Che senso aveva? Se uno è tanto bravo da rastrellare, allora può anche potare le siepi. Che razza di gente ragiona così? Lara rimase per un po’ a chiederselo, e intanto cercava le differenze. I motivi per cui il suo giardino fosse meno schifoso dell’altro. Alla fine è quello l’importante, che gli altri stiano peggio di te. Ma non trovava niente, così dopo un po’ tirò giù la bottiglia di Strega dalla mensola e andò a sedersi sul divano.

Il cuscino era sfondato, ma lei ritrovò l’impronta del suo culo e tutto fu a posto. Infilò il dito in un vecchio buco. Quella era casa sua. La mappa di casa sua. Le cose che lei sapeva. Se qualcuno avesse comprato quell’appartamento, i nuovi inquilini non avrebbero capito. Avrebbero pensato: questo copridivano è da buttare. Oppure: qui c’è una macchia, è da mandare a lavare. Invece lei sapeva la verità. Una volta, nemmeno due mesi prima, Roberto era venuto a trovarla. Era la prima volta che metteva piede in casa sua, e lei non aveva pulito niente. Le aveva fatto casino. Lei si era sentita malissimo e alla fine lui l’aveva presa per la gola e l’aveva sbattuta sul divano. Avevano scopato selvaggiamente. Quella macchia era di lui. Si era incazzata da morire. Ora me lo lavi, gli aveva detto. Ora mi paghi la lavanderia. Ma poi non ne aveva avuto il coraggio. Come si fa a mandare a lavare una cosa così? Tutti avrebbero capito. Così alla fine lo aveva perdonato.

Frugò e frugò nel buco. Dentro, sentì un filo. Lo pizzicò. Guardò il foro espandersi come una ragnatela che si sfaceva esagono dopo esagono. Ma sì, pensò. Ma sì.

Sull’altra seduta c’era un PC portatile. Lei se lo mise sulle ginocchia, trattenendo il fiato.

Niente. Nessun messaggio, e sì che erano passate due ore. Aprì tutti i social. Click click click. Li richiuse. Poi attivò Skype e controllò se le conversazioni erano aggiornate. Lo erano. Lara fece una smorfia e tracannò un lungo sorso, asciugandosi col dorso della mano. Be’, fanculo.

Si rialzò. Il salotto era pieno di scatoloni. Su uno c’era scritto: LIBRI SCAFFALE. Su un altro: PUZZLE E GIOCHI. Erano entrambi chiusi con lo scotch marrone. Si chiese se avesse senso, andare a vivere con Roberto. Ma era una domanda stupida, perciò tornò in cucina e mise la tazza a lavare. Dal cassetto delle posate sfilò un coltello da bistecca. La lama era incrostata di vecchi grumi di carne. Aprì il rubinetto e ce la passò sotto, sciogliendo il grasso finché non fu pulita. Camminando a ritroso verso gli scatoloni, guardò di nuovo il PC: niente, nemmeno mezzo messaggio. Si sentì ronzare il sangue nelle orecchie. Quella stronza. Il coltello sgocciolava sul pavimento. Lo alzò sul cartone con su scritto PUZZLE E GIOCHI. Una goccia d’acqua finì sopra la prima i, come se fosse un puntino. Lara sbatté le palpebre e spostò la lama sull’altra. Non poteva rimanere un puntino solo. Dovevano esserci entrambi. Per forza. O sarebbe finito il mondo. La casa sarebbe andata a fuoco e la faccia le si sarebbe sciolta come per una bomba nucleare. Li aveva visti, lei, certi documentari. Roba su Chernobyl e Nagasaki e Hiroshima. Su Fukushima, anche. Quanto cazzo erano stati sfortunati, i giapponesi. E sì che era gente magra.

Ma la goccia non scendeva. Sbatté la lama, ma niente. E va bene, disse. Brutta troia.

Tornò all’acquaio e riprese la tazza. La tirò su e la riempì di nuovo di Strega. Era così giallo che sembrava pipì. Annusò la tazza con gli occhi che pungevano. La tracannò, lasciando giusto un goccino. Se la portò dietro fino allo scatolone PUZZLE E GiOCHI, e ce la inclinò in cima. Sulla seconda i. Guardando il puntino che si allargava, per poco non venne nelle mutandine. Sì. Dio. Tutto era riequilibrato. Bello. Il sole sorgeva di nuovo a est e tramontava a ovest. Bellissimo.

Poggiò la tazza sull’altro scatolone e iniziò a squartare PUZZLE E GiOCHi col coltello. Strappò una striscia di scotch e l’accartocciò in una palla collosa. La lanciò sul pavimento e passò a un’altra. Che goduria. Più lo faceva, più palle appiccicose accartocciava, più si sentiva tranquilla. Era divertente. Non ci pensava proprio, al fatto che lei continuava a non risponderle. Come se fosse importante, poi. Mica aveva fatto niente per farla incavolare. Non è che una si può arrabbiare perché le dici che non ti va di uscire. Cioè, mica glielo aveva detto così. Aveva usato parole carine. Ma il succo era quello. Non voleva l’aperitivo, ecco tutto. Era la quarta settimana di fila che non lo voleva. Qual era il problema? Era martedì. Chi diavolo propone un aperitivo di martedì?

Strappò un altro lembo di scotch. Si sentiva la faccia molto calda. La colla rancò via anche un pezzo di cartone, ma lei non ci fece caso. Respirava veloce, le girava la testa. Si chinò e raccolse la tazza. La annusò e ci guardò bene dentro. Forse, un goccino. La inclinò sopra la lingua finché non sentì bruciare un circoletto sulle papille.

E comunque lo sapeva, Daniela. Non è che fosse una novità. Si conoscevano da dodici anni. Era successo alle medie, quando lei si era fatta beccare in bagno dopo che quelle stupide l’avevano spogliata e costretta a camminare per la scuola tutta nuda. Stava piangendo sul cesso. Chiunque l’avrebbe fatto. Era nuda e aveva il ciclo, il suo primo ciclo. Pensava a quelle stupide, ma soprattutto ai maschi che l’avevano guardata camminare. Nessuno di loro si era eccitato. Avevano riso di lei. Perché non si erano eccitati? Almeno a uno avrebbe dovuto rizzarglisi. Comunque lei se ne stava sulla tazza e Daniela l’aveva trovata e le aveva tolto il taglierino dalle mani.

Erano andate avanti dodici anni così. Ogni tanto Daniela la trovava da qualche parte e le toglieva il taglierino di mano. Finché non erano nati i bambini. Ovviamente era stata lei ad averne per prima. Era rimasta incinta di un tizio con cui usciva e poi il tizio aveva messo la testa a posto e se l’era sposata. Durante l’allattamento avevano scopato di nuovo e avevano fatto ancora centro. E sì che quando si allatta è difficile. Comunque loro ci erano riusciti. E lei era stata felice per loro, perché certe emozioni un’amica le deve provare per forza. Il che voleva dire, tradotto, che stavolta aveva aspettato qualche settimana in più, per decenza, per riprendere in mano il taglierino. Stavolta, però, Daniela non era venuta a fermarla. Era stato Roberto, questo tipo molto pulito e molto alto, a trovarla. Sempre in un cesso, ma di un museo. Lui l’aveva fermata e poi erano andati a vedere i quadri di Magritte. Una storia surreale.

Daniela ne era stata contenta, ma presto aveva cominciato a fare storie. Quel tipo non mi piace, lascialo. Come no. Perché tutte le cose belle dovevano capitare a lei. Come si fa a prendere un aperitivo con una così? Sempre con quei cavolo di bambini dietro. Per non parlare di cosa si mangiava. Una spende cinque euro e pensa: sto facendo la brava, sono pulita. Sono assaggini. Invece sono bombe. Non nucleari; caloriche. Un’oliva ascolana? Duecento, almeno. Boom. Una manciata di patatine? Per l’amor di Dio. Li vedeva, certi documentari, lei. Le patate in sacchetto non erano altro che dischetti di grasso pressato. Se provi a darci fuoco, mica bruciano. Si anneriscono e colano grasso incandescente. Tipo il sego delle lampade di una volta. Grasso puro. E la focaccia? I wurstel con la salsa rosa?

Il respiro quasi la faceva impazzire. Andava veloce, veloce. Si aggrappò alla maglia sul petto, poi sbirciò di nuovo verso il PC. Niente. Riguardò la tazza. Niente. Fissò il coltello. Quello era qualcosa. Si leccò le labbra. Le mani le tremavano. Si girò verso la cucina e gli armadietti ma sapeva che erano vuoti. Anche lo Strega era quasi finito. Ed era quello delle emergenze. Guardò di nuovo giù. Tutte quelle scatole di puzzle impilate dentro il cartone. Rettangolari e rigide. Su ciascuna c’era appiccicato un foglietto. DUE PEZZI MANCANTI, sulla prima. La sollevò. SETTE PEZZI MANCANTI, sulla seconda. E sulla terza: UNDICI PEZZI MANCANTI. Sempre peggio, si disse, col cuore in gola. Porca troia, sempre peggio. Per qualche motivo si ritrovò a pensare a Roberto e al momento in cui aveva smesso di andare agli aperitivi e di mangiare carboidrati e di fare colazione ma non riuscì a capire cosa c’entrasse. Si guardò di nuovo allo specchio, ma anche quello non c’entrava niente.

Mosse le dita ossute sul lembo di cartone. Le mosse come se stesse suonando un pianoforte. Una scarica di adrenalina l’attraversò e ogni altro pensiero venne spazzato via. Il movimento, le disse Roberto nella testa, come faceva sempre mentre la scopava. Devi far muovere i muscoli. Devi dimagrire. Lo devi fare, o il mondo crollerà. Devi farlo drizzare al tuo uomo appena ti vede. Svenire ogni volta che provi un orgasmo. Deve diventarti il collo così sottile che potrei spezzarlo con una mano. Muovile, avanti. Muovi le dita, se non puoi fare di più. Smaltisci. Tre calorie. Cinque. Dieci.

Poteva quasi sentirle. Sentiva i grassi scoppiettare ed esplodere dentro di sé come chicchi di mais. Il liquore sgorgava via da lei come acqua sporca.

Quando, un’ora dopo, dal PC trillò una notifica, lei non si girò nemmeno. Stava ancora suonando.





Alice Bassi (La Spezia, ‘87) insegna scrittura creativa. La sua droga è la fantascienza, però scrive quasi solo narrativa. Nel 2015 il suo primo romanzo, “Il canto delle voci perdute”, è stato finalista al Premio Neri Pozza. Il suo racconto “Quelli nei muri” si trova in Strane creature – vol. 1 (Watson). Nel 2020 due suoi racconti usciranno su Il rifugio dell’Ircocervo e Crack: “La Vergine Maria” e “Supereroe”.

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“Pezzi mancanti”, un racconto di Alice Bassi per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni.