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Breve diario di un eroinomane

Mi trovo qui, in un centro di accoglienza adatto a persone con cui io non ho niente a che fare. Purtroppo ci devo stare da quando i miei si sono fatti riempire la testa da quei maledetti dell’associazione genitori; associazione che da più di un anno fa hanno iniziato a frequentare. Dicono di voler essere all’altezza di affrontare ciò che loro ritengono essere “il mio problema”. Va bene! Devo ammettere di aver commesso degli errori nella mia vita, ma con altrettanta sincerità posso affermare che ormai essi fanno parte di un passato che non mi appartiene più.

Il mio incontro con l’eroina è avvenuto in modo del tutto casuale, non sono andato di certo io a cercarla come invece mi pare che facciano tutti quei parassiti che stanno qui. Poi, certo, com’è naturale che avvenga in queste circostanze, è diventata un’abitudine, una cosa automatica. Nient’altro che un’abitudine, non di certo un vizio.

Devo anche dire, per sincera ammissione, che dopo la separazione da mia moglie ho usato la sostanza per farmi proprio male, sicuramente non per cercare quel disgustoso piacere di cui invece vanno a caccia questi individui con cui ora sono costretto a coabitare.

Il mio matrimonio è finito ma non per colpa mia. Che cosa mai avrei dovuto fare se non andare via di casa quando ho scoperto che lei mi tradiva. Mi ha tradito mentre aspettava mia figlia! Comunque non posso dire di non aver fatto il mio dovere. per una questione di correttezza nei confronti di una donna incinta ho aspettato che partorisse. Io ce li ho i miei princìpi. Subito dopo la nascita di mia figlia ho lasciato quella casa. Non potevo più stare lì.

Come potevo rimanere in quella casa ossessionato com’ero dall’idea che tutti sapessero del tradimento di lei. Sentivo che c’erano delle verità nascoste che dovevo scoprire a tutti i costi. Avevo anche il fondato sospetto che i miei stessi genitori coprissero i suoi tradimenti.

Dio solo sa quanto ho sofferto quel periodo. Per strada sentivo che la gente rideva di me. Di tanto in tanto coglievo  una risatina furtiva. Quando poi li guardavo diritto negli occhi, si ricomponevano immediatamente, così come fanno i codardi e, abbassando lo sguardo assumevano un comportamento indifferente.

          Non vedo mia figlia da tantissimo tempo. Ritengo che una persona che fa uso di droga è sporca e non deve avvicinarsi ai bambini per non contaminare la loro pulizia. È vero che – a differenza delle persone con cui sono ora costretto a passare i miei giorni – è più di un anno che non uso sostanze, grazie alla mia forza di volontà, ma è bene che io rafforzi questo distacco per essere veramente ‘come si deve’, una persona degna, un padre degno di esserlo.

          Mi hanno assegnato una psicologa di riferimento. Oggi stesso mi ha chiamata per un colloquio. Loro li chiamano colloqui. A me è sembrato una sorta di interrogatorio. Stessa storia anche al Sert. Stesse domande. Vogliono intrufolarsi in tutte le storie della tua vita, vogliono carpire tutti i tuoi segreti. Fanno delle domande alquanto sconvenienti su questioni che ognuno – se ha un po’ di dignità – dovrebbe mantenere per sé.

Alla psicologa di oggi avrei anche risposto sinceramente ad alcune domande che mi ha rivolto, se non fosse per il dubbio che ho circa le persone a cui potrebbe riferire quanto da me confidato. E se ne parlasse proprio con i miei? Si fa presto a parlare di segreto professionale. No! A me non me la fanno sotto il naso! Non per niente durante il colloquio cercavo di scrutare le sue intenzioni, concentrandomi il più possibile per afferrare bene il significato delle sue parole, per tentare di leggere fra le righe, per scovare significati nascosti dalle parole, quelle pronunciate. Spesso le ho ripetute le sue parole per verificare che avessi capito bene. Parlo apposta lentamente perché non voglio dare adito ad equivoci. Lo so, lo sento che prima o poi farà un passo falso ma, di certo, non mi troverà impreparato. No! A me non me la fanno sotto al naso.

          Qui non ho fatto amicizia con nessuno. Non ho nessuna intenzione di avere amici. Non ne ho fuori, figuriamoci qua dentro. Quella di non avere amici è una scelta ponderata, frutto delle mie esperienze. Ho sempre nutrito dubbi sulla lealtà o affidabilità di un amico. Ho avuto spesso modo di constatare quanto i loro comportamenti nei miei confronti fossero per lo più dettati dalla gelosia e dall’invidia.

Qui cerco di isolarmi per quanto mi sia concesso. Non ho nulla da spartire con persone irrecuperabili, privi di ogni volontà di cambiare. Io, a differenza loro, ho dei valori in cui credo. La famiglia prima di tutto. Cerco di mantenere riservate le informazioni riguardanti i fatti privati miei e della mia famiglia. Non faccio come questi altri che nei gruppi che loro chiamano di terapia sembrano non vedere l’ora di aprir bocca per rivelare ogni sorta di fatti personali, di situazioni, di sentimenti intimi che ognuno invece dovrebbe mantenere per sé, e lo fanno senza neanche provare vergogna per quello che esce loro dalla bocca. Sono io quello che prova vergogna per loro. Sembrano anzi contenti perché quando hanno finito di parlare vengono solitamente complimentati dalla psicologa presente nel gruppo e anche dagli altri – tutti tranne me – per la loro apertura e spesso – fatto per me paradossale – ricevono anche un applauso. Ahimè, il mondo sembra andare proprio alla rovescia.

          È quasi passato un mese da quando sono qui e ancora nulla è cambiato. Nulla di quello che mi aspettavo cambiasse. La psicologa nei colloqui continua a dirmi che non parlo abbastanza di me, che non condivido i miei pensieri con gli altri e che mi isolo.

Tutto questo anche perché l’altro giorno mi hanno visto sdraiato sul divano durante l’ora di aggregazione. Le ho spiegato che per me è necessario, almeno una mezz’oretta nell’arco della giornata, poter stare da solo a occhi chiusi cercando di riordinare i pensieri che mi affollano la testa. Ma non mi pare che abbia capito granché di quello che le ho detto. Piuttosto da lei mi aspetto che faccia capire ai miei che io sono diverso dagli altri, sono un caso particolare e che non ho bisogno di stare in una comunità di recupero.

Qui capita che si sentono troppe cose: troppe parole, troppi fatti riferiti. Ho bisogno del mio tempo per dare il giusto significato a una parola, a un fatto accaduto. Sì, è vero, tendo a rimuginare un po’ troppo, ma non posso stare insieme con altre persone se prima non ho sciolto un nodo, un dubbio su una qualsiasi cosa  che mi capita di sentire o di vivere.

          Il dubbio che questi giorni mi sta tormentando riguarda la mia famiglia: mio padre e mia madre. Sono loro la mia rovina! Eppure sono convinto che la loro determinazione nel non volermi a casa se non vado in una comunità è dovuta all’influenza di qualcuno che vuole metterli contro di me. Ma giuro che queste persone prima o poi se la vedranno con me! Devono pagare tutti i danni che mi stanno procurando perché non hanno nessun diritto di rovinare una famiglia, di impedire a un nucleo familiare di rimanere unito.

          Sono sempre più convinto di non aver bisogno né di una comunità né di sostegno psicologico. La psicologa invece di fare i miei interessi mi rema contro. Sono sempre più sicuro che anche lei si sia messa d’accordo con i miei. Ultimamente non fa altro che insinuare dei dubbi sul fatto che io sia guarito. Io cerco di fare buon viso a cattivo gioco. Una piccola parte di me vuole ancora sperare che si renda conto che ha a che fare con una persona moralmente intransigente, una persona diversa da quelle abituata a vedere ogni giorno, una persona che ha dei princìpi in cui credere.

          Non ce la faccio più a stare in questo maledetto posto. Mi accorgo ogni giorno di più che tutti i miei sforzi, tutta la mia fatica per dimostrare la mia completa estraneità al mondo della droga sono inutili. Odio la parola comunità ma sento che non mi lasciano altra scelta. Sento che c’è una congiura contro di me. A volte mi viene il terribile sospetto che i miei mi preferiscano drogato, che stiano facendo tutto questo perché non mi vogliono tra i piedi. Sono loro la mia rovina.

Sin da piccolo, mentre gli altri bambini erano lasciati liberi di giocare, loro mi stavano addosso, non facevano altro che controllarmi. E poi quando non ero ancora adolescente mio padre mi seguiva di nascosto per spiare ogni mio movimento, ogni mio incontro perché era convinto di scoprirmi a comprare la droga. All’improvviso sbucava da dietro una albero o usciva da un portone e si avvicinava a me con un viso triste e deluso. Ma io allora non sapevo nemmeno cosa fossero le sostanze.

Uno di questi giorni potrei dare di matto e andarmene a vivere per strada. La strada, la libertà, la fine di questo incubo.

Oh Dio, che sto dicendo! Oh Dio, non so più quello che dico.

Non so quel che farò domani, ma prometto a me stesso che un giorno si accorgeranno tutti di essersi sbagliati sul mio conto e quel giorno per me sarà una rivalsa.

 

“Breve diario di un eroinomane”, un racconto di Giovanna Fiorino