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illustrazione Feel Good - R.S. - SPLIT - Pidgin Edizioni

Feel Good

Quello che sto per raccontarti è successo sul mio divano – cinquanta dollari di pelle marrone trascinata fuori dal garage di una tizia benestante che stava per trasferirsi in un posto migliore.

Tieni presente che eravamo nel pieno della pandemia, ed eravamo tutti tristi e affamati, tu compreso. Io avevo lasciato ogni coinquilino alle spalle e mi ero trasferita da sola per la prima volta, un isolamento volontario dentro l’isolamento già imposto.

Dicevo: è successo sul mio divano nuovo, dove mi sedevo e provavo a sentirmi meglio e suonavo i Gorillaz e gli Strokes con l’ukulele, anche se tu non lo sapevi. Le corde di plastica mi frustavano tagli sulla punta delle dita mentre le ore mi urlavano in faccia che ero al sicuro, ma sola, lontana dalla mia famiglia in Italia, chiusa a sua volta da confini che non potevo oltrepassare.

È cominciato tutto quando eri sopra di me, la pelle marrone del divano sotto la mia schiena, e io ti ho detto, “we need a condom”, e tu, enorme, mi hai schiacciato sotto il tuo peso, sotto tutte le libbre che non saprei quantificare – perché non penso in libbre –, e mi hai premuta, i tuoi bicipiti da giocatore di football che mi inchiodavano contro il divano. Allora mi hai ordinato, “yeah, go get it”, ma non ti sei mosso. Sapevi perfettamente che il mio corpo, nonostante le curve mediterranee e le cosce muscolose, non poteva fare niente sotto il tuo, e che avresti potuto semplicemente scoparmi, cruda, come volevi. Al sangue. Raw.

Non ho detto niente, le parole esatte in inglese che mi precipitavano in fondo alla gola. Ti ho guardato negli occhi e tu mi hai stretto i polsi tra le dita. Le tue vene mi pulsavano addosso, e hai ripetuto, “go ahead”, e per un attimo ho pensato che fosse anche arrapante, questa storia di te che imponevi il tuo potere tutto americano e tutto maschio su di me, e quasi mi piaceva trovarmi lì, nuda, inerme: la metafora perfetta. Però alla fine mi hai lasciata andare e io sono corsa in bagno, al sicuro, dove ho pescato un preservativo dal cassetto, un sottile strato di lattice facile da lacerare esattamente come il mio corpo sotto il tuo.

*

Tra l’altro, tutto questo è successo quando la mia vita stava andando a rotoli su vari livelli, tra cui:

1 – Il dipartimento immigrazione delle forze dell’ordine aveva minacciato di cacciare gli studenti internazionali dagli Stati Uniti per via del virus, e

2 – L’ufficio degli studenti internazionali nell’università dove lavoravo mi aveva comunicato che non potevo tornare in Italia, e che se fossi partita non avrei potuto tornare in America per finire gli studi, e avevo capito solo allora che non sapevo quando avrei rivisto la mia famiglia, e

3 – La pandemia era migliorata in Italia, ma gli Stati Uniti erano in fiamme, in un caos di elezioni e virus e fuoco e la polizia che ammazzava i neri, e

4 – Ero andata a una protesta contro il razzismo e la violenza delle forze dell’ordine, ma un pazzo su un pick-up si era lanciato in mezzo alla folla – noi – e mi ero trovata schiacciata contro il guardrail dell’autostrada, pregando di non soffocare o precipitare dal cavalcavia.

E in tutto questo caos, una notte mi sono seduta sul divano di pelle a contare i lividi sulle gambe, a sfiorare la pelle martoriata dal cemento, e mentre provavo a suonare l’ukulele per sentirmi meglio, tu hai pensato bene di mandarmi un messaggio. Wyd, senza neanche il punto interrogativo. Non era una domanda.

E lo so che non avrei dovuto, ma sono stata abbastanza stupida e affamata da rispondere, not much.

*

Dicevo: ovviamente si è rotto il preservativo – o l’hai rotto tu –, ma abbiamo continuato, perché ero stanca e sola, e alla fine non mi hai detto niente; ti sei alzato, la mia pelle ancora intorpidita dalla tensione sotto il tuo corpo enorme. Hai afferrato il mio ukulele con le tue mani grosse come pale e hai cominciato a suonare una canzone che non ho riconosciuto, una roba brutta. Ho chiesto (errore), “What’s this?”, e tu hai risposto, “You really don’t know? If you want to be American, you have to know Gorillaz”.

Allora ho fatto una lista mentale di tutto ciò che c’era di sbagliato nella frase che avevi pronunciato:

1 – La supposizione che, se non avevo riconosciuto le note iniziali di un tormentone come “Feel Good Inc.”, era perché non conoscevo la band, e non perché tu suonavi di merda, e

2 – L’implicazione che davvero volessi essere americana – perché diciamolo, secondo ogni americano, chi non vuole esserlo? –, e

3 – Il presupposto che se una band canta in inglese deve essere per forza americana, anche se i Gorillaz sono inglesi, e

4 – Il fatto che avessi un enorme poster dei Gorillaz sul muro proprio sopra il divano di pelle marrone dove mi avevi inchiodata, ma non l’avevi neanche visto, proprio come non avevi mai visto me, e non avevi mai chiesto come me la stessi cavando in America durante una cazzo di pandemia globale, mentre tutta la mia famiglia e miei amici erano in Italia. Non mi hai mai chiesto come stessero i miei cari in un paese devastato al punto che lunghe file di carri funebri intasavano le vie di bellissime cittadine medievali che gli americani potevano solo immaginare nel brilluccichio del vetro verdastro di bottiglie di vino posate su tovaglie a scacchi bianchi e rossi – “mamma mia!”, grandi gesti, risate in una lingua confortante perché sconosciuta.

Insomma, mentre ero rintanata in un angolo del mio divano e tu te ne stavi stravaccato, nudo, col mio ukulele sull’uccello, ho pensato di dirti tutto questo, ma non l’ho fatto, perché non mi è mai piaciuto far sentire le persone inermi. Quindi ho solo detto, “I didn’t recognize the song”, e mi sono pure sentita in colpa. Ho pensato di strappare il mio ukulele dalle tue stupide mani grosse come pale, dalle tue braccia da giocatore di football che non chiede mai e si prende quello che vuole, e ho pensato di suonare qualcosa – non una canzone degli Strokes, o dei Gorillaz, o di una qualsiasi band sui poster che non vedevi mai. Avrei cantato qualcosa di diverso, in italiano, per pronunciare parole che non avrei saputo dire in inglese, e che tu non avresti ascoltato comunque.






“Feel Good” è un saggio personale tratto da una raccolta di creative nonfiction in fase di lavorazione. L’autrice vive a cavallo tra l’Italia e gli Stati Uniti.

illustrazione Feel Good - R.S. - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Feel Good”, un saggio personale di R.S. per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni