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È sull’orlo del precipizio che l’equilibrio è massimo

Aveva conosciuto Ginger al bar e adesso voleva chiavarla. Ginger non era una donna bella. Era in sovrappeso di almeno dieci chili, aveva due braccia robuste, un collo taurino, che una collana di perle finte stritolava senza successo, e un doppio mento da pellicano anziano. Aveva usato tre volte la quantità normale di rossetto e le sue labbra erano un frutto esotico, gonfio e sporgente, che non so perché volevi baciare. Non mordicchiare, solo baciare. Alan voleva baciare quelle labbra. Voleva sollevarle il vestitino blu elettrico che come una tenda da bagno le cingeva il corpo, e penetrarla, dolcemente, mantenendo in seguito un ritmo lento e costante, come un treno che non parte mai veramente.

Ginger non era una donna bella. I suoi capelli non erano né mossi né lisci: un’incerta via di mezzo con la quale era costretta a fare i conti ogni mattina della sua vita. Quella sera li aveva intrappolati in uno chignon enorme ma definito, e ogni tanto era necessario ravvivarlo.

Aveva cose enormi a coppie: gli occhi, le orecchie, i seni, le gambe. I suoi seni erano colossali, e il vestitino blu elettrico si livellava di schianto poco sopra la vita. Il suo colore preferito era il cazzo.

Alan voleva portarla a letto prima del quarto drink. I drink erano davvero tosti, in quel bar, lo sapeva bene. Un altro giro e Ginger sarebbe finita KO tra i seggiolini dietro il bancone, laddove si annidava la roba appiccicaticcia che tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, era stata birra, cenere di sigaretta, torsi di oliva, sangue, vomito e disperazione.

Lei ci stava: gli aveva allungato due o tre baci, e in quello di mezzo aveva incluso un po’ di lingua. La sua lingua, per quel poco che aveva assaggiato, era calda e spessa, come quella di un dinosauro, e il suo alito sapeva di Pall Mall e di prosecco “offre la casa”: quell’orrore che il proprietario ti versa perché altrimenti potrebbe danneggiare le tubature. I suoi denti invece erano bianchi e grandi, come finestrelle di una scuola irlandese in riva al mare, e quando sorrideva, le sue guance, rosse per l’alcol, si trasformavano in palloncini pieni d’acqua.

Le parole magiche arrivarono improvvisamente.
«Da me o da te, cocco?» propose Ginger, ghignando.
«Da me,» rispose Alan, che in passato aveva avuto brutte esperienze entrando in case altrui: avventure agghiaccianti e pericolose che gli erano servite da monito. Così preferiva portare le donne a casa sua. Era più sicuro, non doveva aspettarsi sorprese. Una volta una quarantenne un po’ svitata lo aveva ammanettato al calorifero e Alan era stato costretto a bere la propria urina. In un’altra spiacevole occasione, invece, a casa lo aspettava il marito pervertito amante dell’ano maschile.

In buona sostanza, Alan non sarebbe andato a scopare in una casa che non conosceva. Così pagò, porse il braccio a Ginger, lasciò il bar assieme a quel bel donnone. Fuori piovigginava e il tardo pomeriggio di lunedì non sembrava poi così brutto. In macchina Ginger gli fece nuovamente conoscere il calore abrasivo della sua lingua, che ballonzolò come una pallina da flipper nella sua bocca. Poi gli afferrò il cavallo dei pantaloni e Alan si eccitò non tanto per il contatto ma per le sue unghie. Per lo smalto che aveva sulle unghie: rosso fuoco, proprio come il frutto che aveva sulle labbra. Era sempre più eccitato e confuso: Ginger non era una donna bella ma il formicolio alla base dei coglioni non mentiva mai.

In auto Ginger parlò del tempo e di altre stronzate e Alan fece lo stesso. All’altezza del quartiere ispanico acquistò coraggio e le ficcò una mano tra le cosce. Erano lisce e morbide e calde. Alan immaginò il bollore al centro di quelle gambe e il suo glande si bagnò di quella strana acqua lubrificante che la natura ci dona per evitare lo scorticamento e chissà quale altro supplizio. Laggiù stuzzicò quella che poteva essere una fica enorme, già discretamente bagnata, tenera e ben rasata.

Scoprì che Ginger non portava le mutandine.

«Adoro quando il vento soffia dentro di me» affermò sempre ridacchiando. In effetti, sghignazzava alla fine di ogni frase, come se tutto fosse sempre fottutamente divertente. E in un certo senso lo era: perché essere tristi? Cosa c’era di più piacevole e intrigante che rimorchiare uno sconosciuto al bar e scoparselo? Perché Ginger non poteva essere felice?

Con questi interrogativi in testa, ad Alan parve finito il tempo della ravanata tra le cosce, e riportò la mano destra sul volante. Si trattenne dall’odorare le proprie dita. Parcheggiò malamente a spina di pesce invadendo di almeno due spanne la striscia bianca sull’asfalto. In ascensore, Ginger gli ficcò di nuovo la lingua in bocca. Aprì la porta del suo anonimo appartamento, con le pareti verde pisello e l’arredamento acquistato via Internet. Ginger volle una birra. La bevve avidamente, ne chiese un’altra, tuttavia cominciava a biascicare e Alan desiderava un po’ di compartecipazione nell’amplesso che da lì a qualche minuto avrebbe consumato con lei; quindi le disse che aveva finito le birre e trasportò la piacevole serata nella stanza da letto. Ginger disse che voleva darsi una sciacquata e andò in bagno. Alan accese due candele e scostò le coperte. Si svestì accarezzandosi l’erezione. Aspettò prono sul letto.

Ginger apparve sull’uscio del bagno, completamente nuda.

Che tronco di donna, pensò Alan. Davvero, il suo busto, dai fianchi al collo, era come un albero di carne tutto uguale. Non era grassa: era semplicemente robusta. I suoi seni erano grandi e cadenti, con capezzoli larghi come fari di un motorino. Aveva folti peli sulle ascelle, di color marrone. Innumerevoli canyon di cellulite le correvano sui fianchi, nel culone, sotto l’ombelico.

«Ti piace quello che vedi, baby?» chiese Ginger, passandosi una mano sulla fica. Alan non rispose ma invitò la donna a letto battendo due volte la mano nello spazio vuoto alla sua destra.

Comunque sì, gli piaceva quello che vedeva.

Cominciarono a baciarsi. L’alito di Ginger, dopo la birra, era peggiorato ma ad Alan non importava. Ginger lo baciò sul collo, poi sui capezzoli, titillò l’ombelico, prese in bocca il suo pene aiutandosi con la mano. La piccola ci sa fare, pensò Alan. Sembrava volesse mangiarlo. Al centro della testa Ginger non aveva molti capelli e Alan pensò quanto potesse essere deprimente per una donna avere un principio di calvizie.

Dopo circa sette minuti di fellatio niente male, Ginger si sistemò fica all’aria sul letto, e fu allora che cominciò lo spettacolo.

Alan iniziò alternando una sequenza di baci e leccate sui piedi, le gambe, le cosce, la parte interna delle cosce. Ginger gli diceva: «Dai, forza, brutto stronzo, leccami la pipina! Caccia quella lingua nella fessura! Cosa stai aspettando, bastardo?»

Così dopo un minuto di convenevoli, Alan si occupò della fica, che era vasta come l’ingresso dell’Antilope Canyon. Le grandi labbra sembravano chateaubriand scottato in padella e apparivano umide e rilucenti. Una radio da qualche parte riproduceva la versione acustica di “Something in the Way” dei Nirvana.

Ginger afferrò la testa di Alan per comunicargli che voleva che leccasse più in fondo. Alan s’impegnò ficcandole dentro pure il naso. Quella fica non aveva una fine e Ginger persisteva serrandogli la testa sulla vulva.

Presto Alan capì che c’erano due cose molto strane.

Prima cosa: riusciva ancora a respirare, nonostante avesse tutta la faccia dentro di lei.

Seconda cosa: avvertiva un gorgo molto potente, come se Ginger avesse attivato un aspiratore industriale. Non riuscì a sottrarsi al vortice e con un suono tipo “plop” la sua testa fu risucchiata dentro Ginger, che nel frattempo ululava dal piacere.

Aprì gli occhi, sbattendoli diverse volte per liberarli dai liquidi vaginali, e fu abbagliato dal sole, alto e giallo sopra delle colline verdi. Sembrava mattina presto, perché sul prato c’era ancora la rugiada. La sua testa sbucava da un foro sul terreno. Riusciva a respirare l’odore della terra. Una farfalla si posò sul suo naso ma non gli diede fastidio. In lontananza, c’era qualcuno che sistemava una tovaglia a quadri.

Ricordò con nostalgia quando sua mamma lo portava a fare i picnic in campagna, a sei anni. Dopo il pranzo giocavano a rincorrersi e sembrava che niente e nessuno potesse mai dividerli. Tuttavia sarebbe arrivata quella brutta malattia, e tutti quei giorni in ospedale. Si sentì improvvisamente triste e il cielo per tutta risposta si rabbuiò. Una goccia gli bagnò l’orecchio sinistro, poi un’altra la fronte. Grosse nubi nere si muovevano rapide verso di lui. Piovve. Il tizio che stava apparecchiando trovò rifugio sotto un albero. Il terreno attorno a lui divenne molle e riuscì a ricacciare la testa dentro.

Tornò al suo letto e al suo appartamento. Ginger era ancora lì, con la sua fica enorme e la voglia di scopare. Alan però non era dell’umore giusto: invitò la donna a rivestirsi e andare via. Ginger fece dell’ostruzionismo ma Alan sembrava caduto in un pozzo buio e profondo. Lei insultò l’uomo dandogli del finocchio e sbatté la porta talmente forte da disallineare un coprifilo.

Alan pensò a sua madre, si versò quattro dita di scotch e aspettò l’alba di un altro schifosissimo giorno.

 

Emilio Saturnini, classe 1979, scrittore e sceneggiatore. La sua raccolta “La danza del serpente” è disponibile su iTunes e Amazon.

“È sull’orlo del precipizio che l’equilibrio è massimo”, un racconto di Emilio Saturnini