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Avanti e indietro

Il pancione non sussultò più. In quel preciso momento, tutt’intorno si era sviluppata una specie di istantanea della morte. Il marito inebetito, l’ostetrica stranita, lo smartphone quieto. Il loro figlio vivo nella stanza di sopra. Il loro neonato morto, sanguinante e non urlante, nel fagotto che le aveva consegnato l’ostetrica. Mancava solo il biglietto di scuse. Lei, in effetti, l’aveva cercato per un po’ tra la stoffa e la carne, ma non c’era. L’ostetrica, la donna che le aveva consigliato il parto in casa come miglior sistema in generale e a maggior ragione visto il caos ospedaliero di quei tempi, si era rifatta la treccia bionda, lunga e nodosa – nel corso del parto aveva tenuto i capelli nella cuffietta e poi, dopo la morte del piccolo, li aveva srotolati tutti scarmigliati –, le aveva consegnato il corpicino ispessito dagli asciugamani striati di porpora e se n’era andata in silenzio.

Il bambino, l’altro, quello vivo, era sceso dabbasso, facendo scricchiolare lievemente le pedate legnose di quelle tortuose scale. Quasi come discendesse dall’etereo mondo dei sogni e si calasse nel viscoso mondo dell’incubo. La sua venuta arricchiva l’intercalare inquietante e ritmato di quel piano: sgocciolio di sangue, pressione su parquet, respiro ansimante di una donna e vuoto pneumatico di un marito. E poi, su tutto, silenzio di un neonato.

Il telefono vibrò poco dopo. Il marito statua di sale si scosse. Perdeva sudore. E pure una specie di liquefatta dignità che si andava a mischiare col sangue di lei, creando un putridume gorgogliante che infestava tutto il pavimento e che sapeva di morte e commiserazione. Cercando di non scivolare, prese lo smartphone che aveva registrato quello sfacelo di parto dal treppiede. Sul display dominava il nome della madre di lei. Lui lo guardò con gli occhi sbarrati e le pupille piccolissime, accartocciate su se stesse, quasi che volessero distanziarsi da quella stanza, dal mondo, spingendo fino a un universo dimensionale in cui tutto era andato bene e il bambino era fresco e urlante. Ma non lo era.

Lei fece cenno di sì. Le portò lo schermo sul viso. Era un fantasma bellissimo col viso ridotto a un labirinto del dolore in cui non c’era il rischio di perdersi perché ogni strada, tracciata da un bianco candido e tremolante, conduceva sempre allo spasmo. E teneva un altro fantasma, quello vero, in braccio. Presumibilmente pure lui bellissimo seppur innominabile e invisibile. La donna si costruì un sorriso e rispose alla madre con un racconto sofferto di quel fantastico parto in casa. Dell’eccellente professionalità dell’ostetrica, dell’ostinato amore del marito – parlava di lui, incredibile – e soprattutto, ovviamente, del bellissimo bimbo che avevano avuto. E le mostrò il tenebroso fagotto che teneva in braccio. Il marito e il figlio, l’altro, quello vivo, osservavano la pantomima e capirono subito che, in fin dei conti, non c’era da capire. C’era solo da subire.

Una settimana dopo non si era ancora liberata del fagotto. Mangiava, dormiva, cagava, passeggiava senza scollarselo da dosso. L’odore di viscere e trapasso riempiva fisicamente quelle giornate di clausura e le rendeva, come dire, una specie di circuito chiuso della tortura. Poi arrivò il peggio. Quel tipo di peggio che non può sprofondare oltre perché a un certo punto, a furia di scavare il fondo, pure quello che c’è sotto, nelle profondità più incresciose dell’uomo, deve per forza finire. Andò dal figlio, l’altro, quello vivo. Cullando il suo piccolo, sempre avanti e indietro, prese il coltello a serramanico, quello che usavano per tagliare il pane a grandi fette e farci le bruschette, e glielo conficcò tra le costole. Da dietro. Senza troppi complimenti. Diverse volte. In fondo era solo per portarli sullo stesso piano della realtà, le veniva difficile continuare a gestire bambini così diversi. Il bimbo non cedette subito ma parve accettare la scelta della madre. Poi cadde in avanti, arrancando. Ma solo un poco. Lei continuò a circolare, bimbo in grembo, e a trascinarsi con la mano il cadavere dell’altro per casa, sul pavimento, in maniera così brutale che nemmeno Achille col corpo di Ettore.

Così conciata si spinse fuori in strada, incurante dei tonfi e degli sbuffi di sangue del bambino che avevano colorato l’ingresso di casa di un rosso sporco. Alle sue spalle, dall’enorme finestra che dava sul giardino e sull’esterno, oscillava, avanti e indietro, il profilo del marito che s’era appeso al lampadario con quella cintura di coccodrillo che odiava tanto. Lei non parve curarsene. In barba a tutti i divieti, aveva deciso di portare i figli al parco. E in quattro avrebbero corso il rischio di richiamare l’attenzione.





Rosario Battiato, giornalista, è coautore di Creature Fantastiche di Sicilia (2018) e Bestiario contemporaneo di Sicilia (2020), entrambi editi da Il Palindromo. Appassionato di fantastico popolare, cura la collana Mirabilia per Rossomalpelo Edizioni.

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“Avanti e indietro”, un racconto di Rosario Battiato per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni