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illustrazione 30 ore pidgin edizioni

Trenta ore

Piango late mama papa papà mamma latte io sono Lisa faccio male coi denti al seno. Le mie gambe misurano 50 cm.

Lisa 124FHRU, nata alle 12.30 del 6 febbraio 3200, all’età di 50 minuti presenta lunghezza e robustezza degli arti nella norma.

La pediatra firma il certificato, lo archivia e ci saluta.

– Sei una bambina sana, io e papà siamo fieri di te, potrai diventare ciò che vorrai.

Passeggiamo all’aria aperta, le gambe si irrobustiscono, le braccia si allungano, percepisco le articolazioni ancora in tensione quando arriviamo di fronte all’edificio: un muro color antracite che si sostituisce alla linea d’orizzonte.

Mamma si inginocchia, mi sfiora lo zigomo con le labbra umide e mi avvicina a sé, ma non devo prendere il latte.

– Ecco la scuola, imparerai tutto ciò che ti servirà, ciao amore.

Si allontana, la osservo.



C’è qualcosa che non riconosco nel suo profilo.



La parete si smaterializza: attraverso il varco tutti i bambini, accompagnati sin lì dalle madri, possono entrare.

Percorriamo il corridoio: sulle pareti proiettano ologrammi di acacie e merli dalle ali rosse.

La maestra Sdeffi ci dà il benvenuto.

È molto bella, ha piedi affusolati e caviglie sottili, inguine coperto da una peluria folta e nera, ventre piatto e capezzoli rosei, bocca carnosa e pelle diafana.

Ci insegna a fare di conto: nella sala ci sono 100 file e 100 colonne da 100 posti ciascuna.

Ci insegna a capire il tempo:

Passato collettivo – tutte le persone vissute prima di noi;

Passato personale – la nostra vita fino a qui;

Presente – noi seduti;

Futuro collettivo – tutte le persone che vivranno dopo di noi;

Futuro personale – il nostro lavoro.

Ci spiega come funziona il nostro corpo e ci insegna la religione: siamo tutti uguali e tutti utili.

– Ora prendetevi per mano e seguite il corridoio, la lezione è finita.

Salutiamo dispiaciuti la maestra Sdeffi, cerco il suo sguardo e le sorrido.



C’è qualcosa che non riconosco nel suo profilo.



Arlene mi prende la mano, ha una pelle sottile che le lunghe ossa delle dita sembrano voler perforare.

Avanziamo sincronicamente, portando avanti prima il piede destro poi il sinistro, ne ridiamo e sediamo vicine nella sala pasto.

Anche lei è nata alle 12.30 del 6 febbraio 3200, anche a lei lo ha detto la pediatra.

– All’inizio però non ero sola: c’ero io, c’era mamma e c’era un’altra bambina.

Sono curiosa ma dobbiamo raggiungere l’aula della prossima lezione e Arlene non ha tempo per spiegare: questo corridoio è lungo solo pochi passi e sulle pareti i segnali invitano a un rigoroso silenzio.

Sono l’ultima a entrare, la parete si richiude alle mie spalle: è possibile tornare indietro dopo il rimaterializzarsi del muro?

Qui, metà sala è destinata ai maschi e metà alle femmine; ci sottopongono a un test poi ci indicano dove sedere.

Ogni fila corrisponde a uno dei possibili punteggi: davanti chi ha risposto correttamente a tutte le domande, poi a scalare.

La professoressa Ferreis ci dà il benvenuto.

È bella, ha piedi affusolati e caviglie sottili, inguine coperto da una peluria folta e grigia, ventre morbido e capezzoli rosei, bocca carnosa e pelle diafana.

Il mio punteggio è 42/100: il mio talento è la capacità di costruire figure geometriche.

Le parole della professoressa Ferreis si agganciano al mio cervello.

– Siete tutti importanti perché tutti sani. Tutti siete utili.

La ragazza alla mia destra e quella alla mia sinistra si somigliano, l’incarnato candido e la curva del seno pronunciata.

Anche il mio seno è sodo e prosperoso.

– Siete tutti salvi. Nel passato collettivo persone con il talento di portare la guarigione ci resero immuni da malattie del corpo e della mente che portavano a morte prematura. Grazie a loro, noi siamo sani, dalla nascita alla morte possiamo disporre del nostro tempo e nessuno di noi è inutile.

Il mio futuro personale non lo so immaginare. Mi concentro sul passato.

Ho mai visto il volto di papà?

Ricordo la professoressa Ferreis, ricordo la maestra Sdeffi, e mi chiedo se anche mamma fosse così bella.

Desidero rivederla, non voglio che il suo volto svanisca tra gli altri, voglio rendere indelebile il disegno della sua bellezza.

A fine lezione sono alta, l’energia parte dall’ombelico e fluisce attraverso vene e capillari, corro e cerco Arlene.

– Lisa, io avevo una sorella, ma non so più dov’è.

È lei a trovarmi, vuole parlarmi del suo passato personale.



C’è qualcosa che non riconosco nel suo profilo.



Corriamo verso la sala pasto, vogliamo mantenerci in forma e la lunghezza del corridoio si presta al nostro obiettivo; roteiamo le braccia, alziamo le ginocchia in corsa, cambiamo andatura, camminiamo per riprendere fiato.

– Ho conosciuto mia sorella per meno di un’ora. La pediatra ha detto:

Freeir 124FHRU, nata alle 12.30 del 6 febbraio 3200, all’età di 50 minuti presenta lunghezza e robustezza degli arti non idonea, certifico l’inutilità della neonata.

Poi ci ha accompagnate, me e mia madre, sole, all’uscita.

Non volevamo lasciare Freeir, ma non potevamo fare tardi per la scuola.

– Io non ricordo il volto di mia madre. Lo dico, la voce si strozza.

– Dovremmo uscire a cercare tua mamma e mia sorella.

– Come si torna indietro, dopo che i muri si chiudono?

– Non lo so.

Mangiando, leggiamo la lettera che abbiamo ricevuto: indica il numero del bagno che ci hanno assegnato e il lavoro che svolgeremo e che, sulla base del nostro talento, ci consentirà di realizzare il nostro potenziale.

Arlene non mi vuole dire a quale reparto è stata assegnata, decido di non parlarle più.

Nel bagno, per la prima volta, sperimento la musica. Mi siedo e leggo le istruzioni. Sono le 16.30, alle 16.34 dovrò uscire. Se il corpo non si libera dopo 72 secondi, si deve prendere la pastiglia. Non ne ho bisogno. Vorrei essere piena ancora per svuotarmi una seconda volta, ma la seduta si fa gelida e mi alzo.

Al di là del bagno, l’insegna “Costruzioni.” Dove sarà ora Arlene? Mi giro per tornare indietro quando una voce familiare mi accoglie.

Prego di qua.

Mi faccio guidare, mi insegna il lavoro, è importante che io lo faccia bene. Prendo le assi di legno dal carrello, le inchiodo a due a due per ottenere un parallelepipedo rettangolo.

– Complimenti, hai imparato subito, come ci si sente ad essere utili? si congratula la voce.

Sono utile. Proseguo ritmicamente. Sono portata. Nessuna delle mie scatole viene rifiutata dal controllo qualità né ritorna con richiesta di modifiche.

– Ciao, sono Rennop.

Il ragazzo con cui condivido la postazione allunga la mano per presentarsi. Non ricambio il gesto, sto costruendo.

– Io sono Lisa, felice di conoscerti.

Spero capisca che ho apprezzato la sua gentilezza. Chiacchieriamo.

A mezzanotte e quaranta ho montato novantacinque scatole, Rennop novantaquattro: una l’ha guastata per darmi la mano. Siamo stati nella stessa fila alla seconda lezione e gli racconto di Arlene, potrebbe conoscerla.

– Credo che Arlene sia bugiarda. A che lavoro è stata assegnata?

– Non me l’ha detto.

– Strano, tutti lo dicono. Forse ha dei problemi e la pediatra non se ne è accorta.

– Sembrava sana.

– Le persone sane non mentono.

– Lo so.

– Allora non è sana. Se vediamo il responsabile di reparto, la segnaleremo. Nelle alte sfere sapranno senza dubbio dov’è.

A ricompensa del nostro lavoro, io e Rennop riceviamo uno stallo: il corridoio per raggiungerlo è destinato solo a noi. Si tratta di un salotto accogliente, intimo, ho la sensazione di esserci già stata. Mi piace. È il premio per essere utili. Il pene di Rennop si irrigidisce, la mia vulva è lubrificata, ci accoppiamo. Ora avremo un figlio, sarà maschio.

– Rennop, non ricordo il volto di mia madre. Lo dico, la voce si strozza, lui mi tranquillizza, è così per tutti.

È emozionato, fissa la pancia che si gonfia e i seni che si riempiono, vorrebbe restare ma deve tornare al lavoro.

Penso al mio futuro personale: il lavoro e nostro figlio. Lo accompagnerò a scuola, vedrà gli alberi e lo terrò per mano, gli racconterò del padre e della felicità che proveremmo nel sapere di avergli trasmesso il nostro talento.

– Stai per partorire.

Due uomini sono entrati nello stallo e mi sorridono.

Mi stendo sul divano, lascio che mi aprano le gambe e premano le mani sul ventre, ed ecco mio figlio che si attacca al seno e inizia a crescere.

– Ti chiami Dersi, gli sussurro e lo stringo.

Mi piacerebbe ci fosse Rennop, gli uomini mi riferiscono che sta lavorando sodo: ha già pagato l’appuntamento con la pediatra. Mi manda a dire che mi ama e che i nostri stipendi sono davvero buoni.

Dersi già cammina, mi chiama mamma, osserva ogni mio gesto.

Dersi 125GHRU, nato alle 12.30 del 7 febbraio 3200, all’età di 50 minuti presenta lunghezza e robustezza degli arti non idonea, certifico l’inutilità del neonato.

– Mi dispiace Lisa, per questi casi non c’è speranza.

– Parla e cammina. Lo terrò con me, dottoressa.

– Mi dispiace, devi lavorare, almeno tu.

– Non esco senza mio figlio.

– Io devo certificare gli altri neonati, ti saluto.

Voglio prendere Dersi e portarlo via.

Le gambe cedono, la testa pulsa, la vista si sfoca, attraverso una patina alabastrina vedo Arlene: seduta dietro mio figlio, ne immobilizza tra le ginocchia le braccia e il tronco.

Le dita asciutte intorno al cranio di Dersi affondano nelle guance e deformano la sua bocca nella caricatura di un bambino che impari a pronunciare la lettera U. Ruota le mani di 180 gradi – qualcosa si sgretola – svengo.

Quando riapro gli occhi Rennop è curvo sul banco di lavoro, ha capelli bianchi e sottili, emette un suono gutturale per ogni asse che solleva.

– Amore, ti sei ripresa, mi accoglie con un sorriso.

– Il nostro Dersi…

– Non ci pensare, non avrebbe mai potuto essere utile.

Abbassa il capo, solleva un altro asse.

– Ho lavorato per lui e per te. Non temere, mi occuperò io di tutto.

Torno al banco da lavoro, i miei seni sono così lunghi che devo stare attenta a non pizzicarli tra le assi. Stare in piedi è faticoso.

Lavoro e prendo per mano Dersi, siamo davanti alla scuola, gli dico che potrà diventare ciò che vorrà, lo immagino tanto vividamente da provare le emozioni che sto cercando: mio figlio è sano e utile, sono fiera di lui.

– A cosa servono le casse che costruiamo, Rennop?

– A contenere i corpi senza vita.

Ne inchiodo un’altra, vorrei fosse per Dersi.

So che quelle che produciamo noi non sono destinate ai bambini, ma solo fingendo che saranno per lui riesco a rendermi ancora utile.

– Sono stanca Rennop, andiamo nello stallo?

– Dobbiamo lavorare ancora 2 ore, poi avremo i soldi per l’alloggio.

– Cos’è l’alloggio?

– Il posto dove riposare, quando non si è più utili.

Le sue mani sono gonfie e tremano, sfibrate dalla mole di lavoro cui la mia malattia lo ha costretto. Ogni giuntura del mio corpo duole, ogni sofferenza cerca di imporsi sulle altre.

Attraversiamo il nostro ultimo corridoio seduti in sedia a rotelle, spinti da due ragazze al primo turno di lavoro: quella alle mie spalle racconta aneddoti divertenti, quella dietro Rennop tace. So che se parlasse, ne riconoscerei la voce familiare.

Sono le 18.20 del 7 febbraio 3200 quando ci posteggiano nell’alloggio, la più ampia stanza in cui mi sia mai trovata, sulle pareti proiettano ologrammi di acacie e merli dalle ali rosse.

– Non sono più stata nel “fuori,” dopo l’ingresso a scuola.

– Nemmeno io, ma guarda gli alberi, è come essere nel “fuori.”

– Cosa facciamo adesso Rennop?

– Possiamo riposare.

Ancora un minuto per riposare, poi l’orologio segnerà le 18.30 del 7 febbraio 3200 e avrò esaurito il mio tempo.

– Dersi ci verrà a trovare? chiedo a Rennop.

– Lo sai che non verrà.

La ragazza che spingeva la carrozzella ha sentito la mia domanda sciocca e vuole confortarmi.

– Lei e il suo compagno siete stati dei grandi lavoratori, utili ed efficienti, Lisa. Avete vissuto una vita piena, sfruttando ogni secondo delle vostre ore. Adesso cerchi di riposare senza pensieri.

Si abbassa, preme le labbra umide sulla mia fronte e mi avvicina a sé, poi si allontana.

La osservo.



C’è qualcosa che riconosco, nel suo profilo.






Martina Manfrin è nata nel 1988, vive con l’amata cagna Frida, è attratta dall’imprevedibilità e scrive per trovare qualcosa che non pensava potesse esistere. Si reputa una persona fortunata.

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“30 ore” un racconto di Martina Manfrin per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni