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Breve dossier sulla mia inconsapevolezza

Sono fatta di cose che non dico, là fuori nel mondo: apro le porte dei miei luoghi sicuri e non parlo più, pur comunicando.
Com’è strano il cielo oggi, dico. Com’è buono questo pane, dico. Com’è odiosx quex politicx, dico. Di ritorno nei recessi bui delle mie coperte mi fissano docili i residui di un’infanzia inconsapevole, tale da quando un bimbo di un anno più grande mi baciò sulla bocca e mi abbassò i pantaloni. Non ho mai dimenticato la prima volta che è successo.

Molti anni più tardi avrei determinato quel momento come l’inizio dell’inconsapevolezza.
Da grandi capiamo una cosa terribile, noi bambine: veniamo su immerse dentro la sessualizzazione eteronormativa dei nostri corpi, come bustine di tè dentro una tazza d’acqua bollente. Manca proprio un rispetto delle dimensioni emotive: la cosa più trascurabile del mondo.
È quasi un habitat prestabilito, un muoversi inconscio tanto è normale, che poi un giorno a venticinque anni ti svegli un mattino e realizzi di essere stata l’esperimento ludico di un bambino che con ogni probabilità era stato esposto ancor prima di te a certi mondi ostici.
Non mi ha fatto paura il ricordo in sé – non mi ha mai abbandonato, in fondo – quanto realizzare di essere stata così anticipatamente esposta a una vulnerabilità fisica che negli anni ha assunto un significato malsano per me. Non il sesso: il mio rapporto con esso.
Poi da lì è successo un indagare perenne indietro e dentro, quasi ossessivo, per ricordare e riconoscere altri recessi inconsapevoli di quei primi anni di vita. Ho riconosciuto le sottili violazioni perpetrate dai più grandi; ho catalogato le consapevolezze e le ho messe a dormire.
Nel buio delle mie stanze mi sono chiesta se avesse avuto inizio in quegli anni, l’origine dei miei silenzi più reconditi.



Era un gioco del quale non mi aveva spiegato le regole, tranne quella di non dirlo mai a mamma o papà. Col senno di poi ogni tanto mi chiedo come facesse a stabilire che non bisognasse dirlo. Allora non mi domandavo nulla, allora mi fidavo. Non è quello che fanno i bambini?
Ma a nove anni come sapeva che quello che stessimo facendo fosse sbagliato? L’ho perdonato molto tempo fa. Non ci hanno protetti abbastanza.

Quello che per anni avrei saputo del sesso era relegato a quei momenti: nascosti in un’illusione di cartone, farmi baciare, farmi abbassare i pantaloni. Non avrei conosciuto il concetto di consenso se non molto, molto tardi nella mia vita. Non posso parlare per lui.
L’ultima volta che lo vidi così da vicino senza nessun altro intorno avevo forse undici anni. Forse dieci. Forse di meno. Lui sicuramente sempre un anno in più di me. Mi è difficile collocare cronologicamente quel giorno perché fu il più imbarazzante, umiliante della mia vita.

Mi chiedo se prima di morire sarò riuscita ad allontanarmi da quel pomeriggio, dall’espressione di mia madre quando aprì la porta.
È un ricordo che non riesco a mettere a dormire perché faccio tuttora molta fatica a pensarci. Non ci ho ancora fatto pace.

Non posso parlare per lui: so volutamente poco di com’è stata la sua vita da quel giorno in poi, non sono mai più tornata indietro.
Agli occhi di almeno due persone non sono più stata la stessa bambina. Lui, ad esempio, non alza mai lo sguardo quelle rare volte che mi capita di incontrarlo.

Da qualche anno, da quando mi sono perdonata, mi si stringe il cuore a pensarci: non eravamo nient’altro che due figli della noia e lo sbadiglio come in quella canzone di Vecchioni che mi fa piangere.
Non la riconoscevo come una violazione emotiva e fisica e sicuramente per lui non lo era nemmeno. Era un gioco. Un muoversi inconscio. Come bustine di tè dentro una tazza d’acqua bollente.

Da bambini non ci toccava nessuna misura del mondo. I nostri genitali si toccavano, accelerandomi il cuore, e tutto non durava che una manciata di secondi (così lo ricordo) in cui alla fine, insieme all’inconsapevolezza, mi si è appiccicata addosso anche la capacità di non parlare più, pur comunicando.

Com’è nuvoloso oggi, dico.



Le cose sarebbero potute andare diversamente, catastroficamente, terribilmente se mia madre non avesse aperto la porta quel giorno.
È la prima volta che ci penso in questi termini. È la prima e ultima volta che racconto di tutto questo. Ho sempre parlato scrivendo ma sono anche fatta di cose che non ho mai scritto, disonestà che mi porto in uno zaino immaginario che diventa sempre più pesante: ho provato per anni a crearmi un dossier di parole da archiviare una volta per tutte, ma le cancellavo ancor prima di formularle.

Negli anni dell’inconsapevolezza sono stata vittima e carnefice, in questo esatto ordine. È stata probabilmente colpa mia (vorrei avessi un chiaro ricordo di questo) l’aver fatto conoscere questo gioco ad un’amichetta poco più grande. Non ricordo per quanto tempo andò avanti, forse fino alle scuole medie, forse oltre, ma ci cercavamo con impazienza e curiosità e a quel punto non era nemmeno più una cosa così strana. Da tenere nascosta sì, ma iniziavamo a comprendere che ad ogni causa segue effetto.

Per lei ho messo in questione l’eteronormatività di un’educazione cattolica e a causa sua una mattina al liceo mi volevo ammazzare.
Dopo quella volta miserabile della mia esistenza, della quale ricordo ancora il nero che vidi intorno a me, chiusi con tutto. Chiusi con lui, con lei, con l’imbarazzo livido di subdole violazioni dalle quali avrei dovuto essere protetta.

Non iniziò subito il mio percorso a ritroso nell’inconsapevolezza. Sono stati necessari lunghissimi anni di decostruzione dolorosa per disimparare tutto quello che mi era stato imposto di sapere sul mio corpo, sul mio genere, sul mio silenzio.
A ventun anni non ho riconosciuto un tentativo di stupro perché lo frequentavo. Dormivo e me lo sono ritrovata addosso mentre cercava di penetrarmi.

Non mi sono mai sentita così stordita, disorientata e fuori posto come mi sentii la mattina seguente; non avevo riconosciuto un tentativo di stupro ma una volta a casa mi sono messa sotto la doccia ed è stata un’interminabile sessione di sfregamento.
È uno strano posto, la nostra mente.

Aveva un anno in più di me e non era consapevole che quella fosse violenza?
Il viaggio a ritroso nell’inconsapevolezza è iniziato qualche tempo dopo quella notte.
Ma il percorso di decostruzione verso la consapevolezza ha avuto inizio tre o quattro anni fa, molto molto tardi nella tabella oraria della mia vita.



Non voglio avere la presunzione di addossarmi la colpa di tutte le mie tragedie personali, traducendole nella punizione per essermi trascinata troppo a lungo prima di agire. Io ho molto rispetto per la mia dimensione emotiva e temporale.
Oggi ho ormai trent’anni e sono a un punto del mio cammino in cui riesco finalmente a vedere la patina trasparente del mostro-patriarcato sulle superfici di tutte le questioni umane. Qualcuno lo aveva insegnato a quel bambino, quel bambino lo aveva insegnato a me. Un’osmosi distruttiva e silenziosa. Ce n’è voluto decisamente troppo di tempo per iniziare a districare questa matassa e non ho ancora finito (tuttora mi risulta difficile passare in certi luoghi senza avvertire un vago, remoto sentore di panico), ma non sono più ferma al disperato vicolo in cui sono stata per anni.

Pur essendo composta di cose che non dico, da qualche parte insieme all’acqua e al sangue, ho scoperto che in realtà non mi definiscono. Questi silenzi non mi hanno fermata dall’incontrare persone capaci di accettare compromessi di limiti che non conoscono e che mi amano di un amore sano. Quando parlo agli altri della mia infanzia dico sempre che è stato un bel periodo che ricordo con affetto. Non è una bugia.

L’inconsapevolezza è solo una delle cose che mi sono capitate; una disattenzione di troppo che ha causato un lunghissimo effetto domino, sullo sfondo dei miei anni; l’origine e la somma di quello che non dico.
Ma sono stata una bambina serena, fin quanto possibile. Credo ad un certo punto di aver iniziato a sentire una terribile mancanza dei miei genitori, pur avendoli accanto ogni giorno. Quando penso a cosa è andato storto mi viene in mente questo. Ma va tutto bene. Non li sento più così lontani da quando i chilometri hanno iniziato a separarci e i ritorni sono diventati un regalo prezioso.

Non voglio rimproverargli niente, mai: hanno fatto letteralmente di tutto per riempire vuoti che nemmeno sapevano.
A lungo ho fatto a pugni con la mia disonestà intellettuale perché l’onestà meravigliosa dex altrx mi faceva sentire una codarda. Questo racconto lo devo alle onestà splendide che mi hanno mostrato la via e mi hanno tenuta a galla. La strada è ancora lunga, ma io amo camminare.

Devo inoltre alla fine di questo decennio illuminante la capacità di riconoscere il ruolo che ho avuto nella mia stessa storia. Mi perdono per averci messo così tanto, ma ora so chi sono.
Ho solo dovuto attendere che il tempo e le notti fossero giuste per parlare.
Sono fatta di cose che non dico, ogni tanto accade un miracolo e le scrivo.






Ginevra Icaro, femminista.


“Breve dossier sulla mia inconsapevolezza”, un saggio personale id Ginevra Icaro per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni