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Kirie Pederson - Come un sasso - SPLIT + Pank Magazine

Come un sasso

(Racconto tratto dalla rivista PANK Magazine e tradotto dall’inglese da Francesco Cristaudo)



Allodola eurasiatica (alauda arvensis)

“Sollevandosi in archi sempre più alti fin quasi a scomparire alla vista, l’uccello batte le ali e canta ininterrottamente per tre o quattro minuti, poi le ripiega e cade come un sasso verso il centro del suo territorio.” (National Audubon Society Field Guide to North American Birds)



Precontemplazione vuol dire sapere qualcosa e dimenticarla subito dopo. Non sai quello che già sapevi. Mi riesce bene. «Sono sempre stanca,» ho detto a mio marito. «Appena sveglia sono già stanca.»

«Credi di dover proteggere le bugie della tua famiglia a tutti i costi,» ha detto Matthew. «Bugie su come tutto andasse bene. È una cosa sfiancante.» Quando finalmente sono scappata dal territorio della mia famiglia per passare un inverno nella Brooklyn di Matthew è stato come se avessi abbandonato la nave.

Quando a maggio siamo tornati nel Northwest volevo godermi il crepuscolo che cala sulla baia, il cielo e l’orizzonte che formano morbide linee grigie contro la linea di costa turchese. Invece, col cielo ancora illuminato, sono scivolata sotto le coperte. Poi, sveglissima, mi sono agitata e rigirata nel letto. I miei fallimenti marciavano come soldati. Dopo essermi finalmente addormentata mi sono svegliata di colpo, sommersa dagli incubi. Alla luce del giorno, mi dicevo che ero in grado affrontare tutto. Ero sopravvissuta agli abusi sessuali e fisici della mia infanzia. Ero sopravvissuta alla malattia e alla morte del mio primo marito. Avevo cresciuto una figlia piena di rabbia, meglio che potevo.

Alla fine ho dormito un’ora, poi mi sono svegliata stretta a Matthew. Un altro giorno impossibile da affrontare. Mi aggrappavo a lui pur essendo convinta che si sarebbe sentito meglio senza di me. In un certo senso la negatività mi entusiasmava perché, a quel tempo, era l’unica cosa che conoscevo. Scavava solchi nel mio cervello, come sentieri.

Il telefono di Matthew ha squillato e lui si è girato per rispondere. Sentivo mia sorella parlare a voce alta. «È per un’email che Paula ha mandato a tutti,» ha detto Matthew. «Un errore.» Poi ha sospirato. «Non leggerla,» ha detto.

Sul messaggio, inviato a tutti i suoi contatti, c’era scritto: «Heather mi ha lasciata sola ad accudire i nostri genitori.»

«Cancellala,» ha detto Matthew. Quando Tim era malato e stava per morire, mandava messaggi del genere ai miei clienti, al mio dottore, al mio capo e a chiunque gli venisse in mente. «Sei fortunata,» ha detto Matthew.

«Fortunata?»

«Ora sappiamo perché la gente ti guarda in modo strano. Ora sai quello che Paula dice a tutti.» Mi ha abbracciata.

«Ho aiutato i miei genitori per anni. Lei si è fatta viva solo qualche mese fa, dopo che ha perso il lavoro.»

«Sta soffrendo. È così che affronta il lutto.»

«Si sta facendo. È così che affronta il lutto.»

Mi sono distratta con lunghe passeggiate nei boschi attorno alla mia casa di montagna. Avevo le membra troppo pesanti per trascinarle in giro, eppure volevo camminare giorno e notte. Come fa una persona spirituale ad arrivare a fine giornata? Non avevo idea di come proteggermi dalla furia della mia famiglia.

Ho organizzato un’escursione con Jabe Ferguson. Il pensiero delle sue storie allegre su musica e uccelli mi dava un obiettivo. Visto che c’era il sole, mi sono svegliata all’alba al suono delle aquile, dei martin pescatore e degli aironi azzurri maggiori. Le onde si infrangevano contro le scogliere. Per prepararmi a conversare mi sono scolata due caffè.

Poi Jabe ha disdetto e io sono rimasta annichilita e senza scopo.

«Voglio che tu sia felice,» ho detto a Matthew. «Non posso convincerti a restare, devo farmene una ragione.»

«Non ne uscirai mai se ti ostini a ragionarci sopra.»

«Continuo a fare incubi orribili. Ci sono mio padre o le mie sorelle che mi segano braccia e gambe o mi sparano in faccia.»

«Mi sembra molto reale.»

Mi sono aggrappata a un altro piccolo obiettivo. I vicini mi hanno chiesto di annaffiargli le piante mentre erano a Boston. Amavo la familiarità con cui mi occupavo della proprietà di qualcun altro, così come mi ero presa cura di quella dei miei genitori mentre loro vagavano per il mondo. Col mio collie e il mio retriever avevo percorso gli antichi sentieri della foresta, che avevo mantenuto percorribili nel corso degli anni. Quando ho raggiunto la casa angolare di Pete e Deb, appollaiata sulla scogliera rivolta a ovest, ho dato l’acqua ai vasi di maggiorana, fucsia, ortensie, fico e mirtillo finché strisce d’acqua non sono fuoriuscite come serpenti dai vasi. Sono scesa coi cani lungo la scogliera. Si è alzata una lieve brezza. Con i loro versi ciarlanti, cinque aquile si sono alzate in volo da un abete di Douglas. È apparso un piccolo squarcio nelle dense nuvole grigie all’orizzonte, come se qualcuno avesse tirato una zip nel cielo livido.

Le escursioni di Jabe Ferguson assomigliano alle mie: cammina di buon passo per ore senza stancarsi. Quando abbiamo riprogrammato la nostra escursione gli ho chiesto spiegazioni sull’email di Paula. «Meglio che mantieni le distanze,» ha detto. Mettendo una mano davanti all’altra, con la consapevolezza che fossi dietro di lui, si è tirato su lungo la scogliera. A passo sicuro, i cani hanno scorrazzato seguendo i loro personali sentieri. «La tua prospettiva non è affidabile.» Jabe è arrivato a una stretta sporgenza, ha camminato qualche centinaio di metri lungo il sentiero, poi si è girato e mi ha bloccato il passaggio. «Di solito non do consigli,» ha detto.

«Allora che c’è?»

«Ti serve aiuto.»

«Sto parlando con te.»

«Un aiuto professionale,» ha detto Jabe. «Non puoi aggiustare da sola la tua famiglia.» Non ho soldi per la terapia, gli ho detto. Mio papà era morto mentre mi trovavo a Brooklyn con Matthew, così avevo cercato degli psicologi da quelle parti. I miei amici di Brooklyn nominavano i loro psicologi con la frequenza con cui nominavano i loro titoli dell’Ivy League. Pensavo che magari sarebbe bastata la ricerca a curarmi. Nel nostro paesino di campagna non avevamo psicologi né alcun tipo di assistenza medica. Se ti ferivi alla testa ti portavano in elicottero a Seattle. Se il cuore ti cedeva, come era successo a mio padre, venivi trasportato dai medici in un ospedale a due ore di distanza. Erano pochi gli abitanti del luogo con una laurea, e se ce l’avevi era meglio non sbandierarlo. Quelli che lo sapevano mi chiamavano “professoressa.” Non era un complimento.

Ma il suggerimento di Jabe, come talvolta succede coi commenti inattesi, mi ha aperto gli occhi. Tornando a casa mi sono fermata alle poste e ho dato un’occhiata alla bacheca di comunità. Su un poster c’era scritto: “Ti serve aiuto per gestire familiari alcolisti o con disturbi mentali?” La psicologa aveva sei lauree, tra cui di Yale e Cornell. E ora offriva un gruppo di supporto, gratuito, nel reparto della contea dedicato agli alcolisti e ai tossicodipendenti. Ciliegina sulla torta, quando ho chiamato, è stata lei stessa a rispondere. Mi sentivo sul punto di svenire o vomitare. «Qual è il motivo della sua chiamata?» ha chiesto Michaela con una voce profonda e roca.

«Mio padre è morto un mese fa e mia madre è in uno hospice.» Mi sentivo sommersa dalla vergogna. Non ero adatta al contatto umano, e adesso quella sconosciuta avrebbe scoperto i miei segreti e mi avrebbe anche rifiutata. Visto che rimaneva in silenzio ho chiesto: «Rimarrà confidenziale?»

«Se la incontrassi al mercato,» ha detto Michaela, «farei finta di non conoscerla.» Il gruppo era rivolto a chi aveva familiari con doppia diagnosi, e si riuniva ogni lunedì, dalle tre alle sei. Pensavo avesse detto “Ora o mai più,” che riassumeva un po’ come mi sentivo. Ma ero delusa. Non mi piacevano i gruppi. Mi facevano pensare alla mia famiglia. Volevo Michaela tutta per me, subito. Inoltre, nella nostra piccola comunità, avrei potuto incontrare qualcuno che conoscevo o che conosceva i miei genitori o le mie sorelle.

«Provi una seduta. Se non fa per lei, non è costretta a tornare.»

Non avevo disfatto i bagagli dopo il ritorno da Brooklyn e, come se stessi affondando la mano nel fango, nella valigia. Ho trovato un sacchetto di semi di zucca. Qualcuno sul punto di suicidarsi si metterebbe a coltivare delle zucche? Ho tenuto i semi ma ho messo quasi tutto il resto dentro sacchetti di plastica da donare a Habitat for Humanity. Quando Deb e Pete sono venuti a ringraziarmi per avergli innaffiato le piante gli ho chiesto se potevano consegnare loro le donazioni. «Dai via un po’ di cose?» ha chiesto Deb. Una delle sue amiche si era uccisa l’anno prima e, ha detto Deb, anche lei aveva dato via tutto.

«Non mi piace il disordine.» Le ho toccato il braccio. «Sto bene. Mi è piaciuto innaffiarvi le piante. E lo rifarò.» Matthew ci ha raggiunte sul patio e tutti e quattro abbiamo osservato una tempesta che imperversava giù nella baia. Il sole rifletteva strisce rosa e turchesi, il mare era calmo e piatto sotto l’elegante verde scuro degli abeti. Poi si è alzata una brezza che rifletteva le ombre, con l’acqua e il cielo che formavano linee verticali pure. È calata la temperatura e la brezza ha trasformato le piccole onde in cavalloni bianchi. Le cime degli alberi vorticavano. E poi la tempesta è arrivata su di noi. Siamo rimasti immobili, con riverenza, fino a essere bagnati fradici.

Quella sera io e Matthew abbiamo visitato mia mamma allo hospice. Per una volta è sembrato che mi riconoscesse. Si è appoggiata alle braccia di Matthew e mi ha fissata negli occhi mentre cantavo tutte le canzoni che mi aveva insegnato. Poi ho tenuto la mano di Matthew e ho pianto accanto alla mia fragile mamma morente. L’infermiera della struttura mi ha detto che dovevo dire a mia mamma che poteva andare, ma ho risposto che sarebbe stata una bugia. «Ti prego, rimani,» ho sussurrato. «Ti prego, rimani.» Matthew mi ha guardato, e mi sono chiesta se pensava che mi rivolgessi a lui. «Guido io,» gli ho detto mentre ce ne andavamo, ma mentre procedevo sulla strada di campagna ho sbandato e la macchina ha raschiato il parapetto che ci separava da un dirupo alto un centinaio di metri. Le mie mani hanno tracciato una tavoletta ouija e in un attimo la risposta è passata dal sì al no. Paura e dolore erano parassiti nella mia carne.

Quando il lunedì mattina mi sono svegliata, il cielo era dorato, una manciata di regoli, codibugnoli e picchi muratori si sono librati nel cielo arso, la baia immobile come cristallo. Stavo strappando le erbacce dopo aver bagnato il terreno per ammorbidire le radici di Ranunculus repens, il ranuncolo strisciante. «Stai certo che non ci vado a quello stupido gruppo,» ho detto a Matthew. «Ci vuole un’ora di macchina e non sono affidabile al volante.»

«Penso che dovresti andare,» ha detto lui.

Sono arrivata in anticipo. Venti minuti che parevano un abisso. Non ero in grado di affrontare gli sconosciuti. Ho fatto marcia indietro nel parcheggio e sono andata a una stazione di servizio. È sempre meglio fare il pieno. Per la prima volta in vita mia, la pompa mi è scivolata dalle mani e la benzina è finita sulla macchina, per terra e su di me. Era chiaro che avrei preferito darmi alle fiamme piuttosto che espormi. Ma non avrei rinunciato adesso. Nel bagno della stazione di servizio mi sono insaponata come ho potuto, poi sono tornata all’edificio in compensato dove si riuniva il gruppo.

In una camera ad angolo che dava su un corso d’acqua, una decina di uomini e donne e due adolescenti stavano prendendo le sedie da una pila e le stavano disponendo in cerchio. C’erano due coppie, una sui settanta, l’altra sui trenta. «Michaela non ci fa sedere accanto,» ha detto l’uomo più giovane. «Altrimenti proveremmo a parlare l’uno per l’altra,» ha aggiunto, dando un’occhiata alla moglie.

«Lo stesso vale per noi,» ha detto una donna dall’aria solenne, facendo un cenno ai due bambini. Mentre tutti chiacchieravano, io imitavo i ragazzini e guardavo le anatre selvatiche che si raggruppavano lungo il torrente. Ero grata che nessuno provasse a includermi in una conversazione. Una donna bellissima con i capelli color argento è entrata di corsa e tutte le chiacchiere si sono interrotte. Si è sistemata su una sedia imbottita che era stata lasciata libera.

Senza guardarmi, ha detto, «C’è una persona nuova. Chi vuole spiegarle come funziona e quali sono le nostre regole?» La più giovane delle due bambine ha detto che il gruppo si era formato per fornire supporto ai membri delle famiglie con persone in cura per dipendenza dalle droghe e problemi mentali. «Quando papà è andato in riabilitazione, nessuno di noi sapeva come comportarsi,» ha detto la bambina. «Non avevamo più il papà che ci diceva cosa fare.» La sua padronanza di sé mi ha sbalordita. «Ce la stavamo cavando da sole, poi qualcuno ha chiesto a Michaela di condurre un gruppo.»

«Le regole?» ha chiesto Michaela.

«Non ce ne sono di vere e proprie.» La ragazza ha alzato le spalle. «Parla dei tuoi sentimenti. Non dare consigli agli altri.»

Michaela mi ha guardata. «Ti va di presentarti?» Intenzionata a raccontare una storiella su come fossi approdata, madida di sudore, in quella stanza, ho aperto la bocca. Con mio orrore, ho cominciato a singhiozzare.

«Non so cos’ho sbagliato,» ho detto. «Pensavo che io e i miei fratelli e sorelle saremmo stati più vicini, che con la morte di papà e mamma in fin di vita, ci saremmo confortati a vicenda.»

«A volte quando un genitore muore altri membri della famiglia provano a prendere il posto di quella persona,» ha detto Michaela. Non ero sicura se si riferisse a me o ai miei fratelli e sorelle. «Non è una questione di colpe,» ha aggiunto. «È solo un pensiero su cui puoi riflettere.» Ero abbastanza certa che Michaela e le altre persone fossero pazze. Io mi sentivo morire, e persino la più giovane del gruppo parlava con voce calma e chiara in una lingua che non capivo.

«Adesso ho paura che muoia anche mia sorella. E mia figlia. Sono tutte così arrabbiate.»

«Quanti anni ha tua figlia?» la domanda era arrivata da una giovane donna dagli occhi chiari seduta davanti a me, i lunghi capelli biondi legati all’indietro da una bandana rossa.

«Ventidue.»

«Mi chiamo Theresa,» ha detto la donna. «Ho ventidue anni.» Mi ha guardata per un attimo. «Tua figlia è adulta.» Non ero sicurissima di cosa volesse dirmi. I miei fratelli erano adulti, e così la mia bambina. Ma era compito mio sostenerli. Non avevano nessun altro. Sentivo ancora il cordone ombelicale che mi legava a mia figlia, e un altro identico che mi legava ai miei fratelli e alle mie sorelle. Reciderlo avrebbe significato morte, per me e per loro. Non sentivo una connessione simile con Matthew. Non condividevamo il sangue. Né condividevamo mia figlia. Matthew sosteneva di voler essere per lei una figura paterna, ma sembravano piuttosto due ragazzini che gareggiavano per la mia attenzione.

«Lascia che ti racconti la mia esperienza.» Theresa mi ha sorriso dall’altra parte del cerchio. «Mio marito era la persona più dolce al mondo. Eravamo migliori amici. Ma quando si drogava diventava cattivo. Mentre era in prigione ho iniziato a farmi una vita. Pensavo fosse al sicuro.» A ogni modo, però, il fegato di suo marito aveva ceduto. «Mi ha chiesto se stava morendo,» ha detto Theresa. «Gli ho detto di sì. Era terrorizzato.»

Non riuscivo a credere che quella giovane donna stesse parlando così apertamente della recente morte del marito. O che le persone nella stanza rimanessero sedute in assoluto silenzio, come avevano fatto qualche minuto prima con me. Col passare delle ore, altri hanno parlato di figli, fratelli o amanti, e di come le loro famiglie fossero collassate.



Quando Michaela ha annunciato che il tempo stava per finire, ero di nuovo sbalordita. Non avrei mai pensato di resistere tre ore, eppure il tempo era passato in un attimo. Michaela sosteneva che così come i tossicodipendenti desiderano le sostanze, la dipendenza verso i membri alcolizzati della famiglia è più forte dell’eroina. «E allo stesso modo in cui i tossicodipendenti praticano l’astinenza dalle sostanze, chi è in una relazione tossica potrebbe aver bisogno di allontanarsene,» ha detto. «Non serve alzare un muro. Può bastare un cuscino. Qualcosa di soffice, ma che tenga a distanza.» Ha guardato Theresa.

«Anche se la persona che amiamo muore,» ha detto Theresa. «Non potevo salvarlo.»

«Visto che condividiamo cose molto intense,» ha detto Michaela, «mi piacerebbe concludere con qualcosa di frivolo. Chi vuole, faccia la prima domanda che gli viene in mente.» Ci ha guardati a uno a uno, in modo da coinvolgerci. «Parliamo di problemi spaventosi. È bello tornare al mondo con una risata.» Ha fatto un cenno verso la bambina che aveva parlato per prima. «Hai una domanda con cui farci concludere, Tara?»

«Quale animale di peluche vorreste stringere in questo momento?» ha chiesto lei. Mentre le persone rispondevano, tutti ridevano e, per un attimo, il mio dolore è scomparso. Michaela è uscita di fretta e gli altri hanno impilato le sedie e rassettato la stanza. Alcuni chiacchieravano in piccoli gruppi. Io sono andata subito alla macchina e ho controllato il telefono. «Tua madre sembra turbata,» c’era scritto nel messaggio. «Forse potresti andare da lei?»

Quando ho aperto la porta scorrevole in vetro dello hospice mia mamma stava facendo su e giù per le scale. Sembrava smarrita. L’ho presa per mano e l’ho portata fuori, ho indicato il cielo e le ho fatto attraversare il giardino. Una volta rientrate l’ho imboccata con del pudding, e la sua bocca formava dei piccoli cerchi mentre mi avvicinavo con ogni morbido boccone.

«Sei la mia dolce bambina,» ho detto. L’ho portata in bagno, l’ho fatta sedere sul water e mi sono voltata per lasciarle un po’ di privacy. L’ho aiutata a lavarsi le mani e i denti, poi l’ho aiutata a tornare nella sua stanzetta dove le ho messo la camicia da notte, che aveva la parte posteriore aperta così da farla vestire più facilmente. L’ho sistemata a letto, le ho accarezzato le braccia scheletriche e ho cantato finché il suo respiro non si è calmato. Ha tirato a sé le mie mani e le mie braccia e se le è sistemate attorno al corpo. L’ho tenuta stretta così, mentre ancora cantavo, finché non si è addormentata.






Leggi il racconto in lingua originale qui: https://pankmagazine.com/piece/fall-like-stone/

Kirie Pederson - Come un sasso - SPLIT + Pank Magazine
“Come un sasso”, un racconto di Kirie Pederson tratto da PANK Magazine e tradotto da Francesco Cristaudo per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni