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L’altezza del carro

Il carro aspetta in mezzo al campo. Noi siamo in fila, ancora fermi.

Un sole rosso e gonfio compare e scompare fra le nuvole vicino all’orizzonte. Nella steppa tutto si sta facendo grigio. Perfino i sassi ormai fanno ombre lunghe.

C’è odore di sangue e airag. Fa venire la nausea. Mi gira la testa, ho la febbre.

Il carro è grande. Di così grandi non ne ho mai visti. Lo tirano otto buoi. I soldati hanno portato via i buoi, ora. Sopra c’è una tenda. È una ger tergen. Così si chiamano le tende sui carri. Me lo ha raccontato mio padre. Mi ha detto che i grandi khan non montano e smontano le loro ger. Le mettono sui carri e se le portano dietro. Questa è larga abbastanza da farci stare dentro un villaggio. Per farla sono servite le pelli di cento capre, penso. Il khan che possiede una ger tergen come questa deve essere ricco, molto ricco.

È lì a dieci passi dal carro, il khan. Sul suo cavallo marrone e bianco. Sta curvo e guarda avanti. Guarda verso il carro ma non so se guarda il carro. Ha l’arco sulla spalla e un bastone in mano. Ai fianchi due pugnali d’oro. I vestiti e il volto sono ancora sporchi di terra e di sangue.

Nessuno gli si avvicina. Neanche ne calpestano l’ombra. I soldati fanno lunghi giri per evitarlo. Solo il vento non se ne cura. Continua a frustare l’erba intorno e i capelli del khan. Neanche il khan, però, si cura del vento.

La testa è leggera, come se ci avessero soffiato dentro.

Il ragazzo che mi sta davanti è più alto di me di almeno un palmo. Per vedere il carro mi devo piegare di lato. Mi devo piegare tanto, perché ha le spalle larghe. Mio fratello Boroqul è il primo della fila. Anche Boroqul è più alto di me di un palmo. Sacha-beki, invece è due posti davanti a me. Lui mi supera di un dito appena. Mi piego di lato per controllare. Si, è più alto di me di un dito, anche se lui dice di una testa intera.

Sacha-beki mi dice sempre che sono un lattante. Mi fa arrabbiare, perché è più vecchio di me solo di poco. Boroqul, invece, è davvero quasi un uomo. Due lune ancora e sarebbe andato anche lui a combattere i mongoli.

Sacha-beki e Boroqul mi prendono in giro quando giochiamo ai guerrieri.

– Noi andiamo a combattere contro i mongoli, – mi dicono. – Tu resta nella ger con le donne a cucinare, torneremo affamati.

E ridono.

– Io faccio quello che fate voi, – gli grido contro.

– Non sai montare su un cavallo vero, – dice Sacha-beki.

– Non sai tendere un arco da uomo, – dice Boroqul.

Quando gli rispondo che la prima cosa è falsa e la seconda non riesce neanche a Sacha-beki, non gli importa. Continuano a ridere fra di loro.

Mi sono arrabbiato, ieri. Ho battuto i piedi a terra.

– Non hanno portato neanche voi a combattere contro i mongoli, – gli ho urlato. – Neanche voi siete uomini .

Boroqul si è calato le braghe e mi ha mostrato l’uccello. Sacha-beki ha riso. L’uccello di Boroqul è molto più grande del mio. È coperto di peli. Il mio è nudo. Non ho più parlato.

Sto sudando. Ogni soffio di vento mi fa tremare.

Stamattina siamo scesi al ruscello e poi siamo andati in cima alla collina a nord. È di là che se ne sono andati i guerrieri qualche giorno fa. Per unirsi all’esercito dei Tatari. Per unirsi al nostro signore Megugin contro i mongoli. È da lì che dovevano tornare.

Dalla cima della collina si vede lontano. La pianura oltre la collina arriva ai piedi delle montagne. La steppa era verde stamattina e le montagne azzurre. Guardavamo a nord. Volevamo essere i primi a vedere i guerrieri tornare. Io volevo essere il primo. Essere più piccoli non vuol dire vedere meno lontano. Ho guardato fino a farmi dolere gli occhi. Fin quando il sole è stato alto sopra le nostre teste.

– I mongoli se la saranno data a gambe, – diceva Boroqul. – Megugin li avrà fatti a pezzi.

– Mio padre appenderà Temujin per l’uccello, – ha detto Sacha-beki ed è scoppiato a ridere.

Sacha-beki dice che suo padre è un generale. Non è vero. Lui dice bugie, anche se le dice bene.

Sacha-beki era steso a pancia in su già da un pezzo, stanco di guardare, quando Boroqul ha deciso di tornare al campo.

Il vento soffia. Da quant’è che siamo fermi qui? Sembra un inverno intero. Le gambe mi fanno male.

I mongoli sono arrivati che il sole era a metà della sua discesa. Sono arrivati da est cavalcando veloci come il vento. Qualcuno ha provato a scappare, ma li hanno raggiunti e ammazzati lì dov’erano. I corpi sono ancora là. Fanno ombre lunghe più dei sassi. Ombre che sbiadiscono ora che il sole è tramontato.

Hanno ammazzato tutti gli uomini che hanno trovato. Anche i vecchi. Le donne – quelle che non hanno ammazzato – le hanno prese per i capelli e portate nelle ger. Non ho visto mia madre. Non so cosa le è successo. Grazie al cielo non ho sorelle.

Un soldato mongolo ha chiesto che si doveva fare dei ragazzi e per un attimo si sono fermati. Prima che quello chiedesse, ne avevano ammazzati già uno o due.

– Decide il khan, – ha detto uno che sembrava il capo.

Così hanno raccolto i ragazzi in un recinto per cavalli e due di loro sono rimasti di guardia. Gli altri sono tornati a rubare nelle ger. A prendersi le donne. A bere airag fino a ubriacarsi.

Ci hanno lasciati lì ad aspettare. Finché non è arrivato il khan.

Un uomo si avvicina al khan. Ha un vassoio in mano. Il khan prende qualcosa dal vassoio e strappa con i denti. Carne secca. Comincia a masticare.

Hanno portato via dal recinto i bambini piccoli. Poi ci hanno fatti alzare. Ho sentito male allo stomaco quando ho visto che non mi portavano via con i più piccoli.

Un soldato mi ha preso per un braccio e mi ha portato alla fila.

È stato allora che ho visto per la prima volta il carro e il khan. Il Gran Khan dei mongoli. È più piccolo di come lo avevo immaginato. Più normale. Non solo del diavolo che sognavo di notte, più normale anche di come lo avevo immaginato di giorno. Ora sta lì e il suo aspetto è allo stesso tempo ordinario e spaventoso. Guarda dritto davanti, come se non ci fosse il carro, né le pozze di sangue, né i corpi. Né l’odore nauseabondo di sangue misto ad airag. Come se non ci fossimo noi qui in fila. Guarda avanti, alla battaglia del giorno dopo, come se questa di oggi fosse roba già risolta. Il khan deve pensare a domani. Non ha tempo per le cose già risolte.

Ha dato i suoi ordini. Fra noi c’è uno che dice di aver sentito gli ordini del khan. Almeno in parte. Avrà sentito davvero? Quel che ha detto fa paura.

Tutto è immobile. La steppa, il carro, noi. Solo il khan si muove. Mastica lentamente. E l’erba bassa che oscilla con il vento. Le nostre ombre lunghe all’infinito si dissolvono nel grigio del crepuscolo.

Potessi infilarti le dita negli occhi, penso guardando il khan. È una rabbia che non ho mai sentito prima. È la rabbia dei grandi. Potrei ammazzare davvero, ora. Quando la rabbia passa mi lascia senza forze.

Poi, all’improvviso, tutto si è animato. Tre uomini si sono fermati davanti al carro. Altri, a cavallo, sono venuti ai lati della fila. Hanno le lance in mano. Guardano dritto avanti.

Di quelli vicino al carro, due hanno in mano scimitarre. L’altro è piccolo e a mani nude. Parlano fra loro.

Il ragazzo davanti si gira e mi guarda. Io mi giro e guardo quello dietro. Devo avere una faccia come la sua, ora: bianca, sottile, con la bocca aperta e gli occhi troppo grandi.

Sta per succedere qualcosa. Nessuno di noi sa esattamente cosa. Tremiamo tutti un po’ più forte. Nessun rumore. Solo il fischio del vento.

– Avanti, – dice piano il khan. Con questo silenzio si sente chiaro fin qua.

Uno degli uomini con la scimitarra viene avanti. Prende Boroqul per un braccio. Mio fratello punta i piedi. Resiste, ma non troppo. Non sa se gli conviene. Il mongolo è grosso come un bue. Lo porta al carro e lo fa mettere dritto. Fa segno con la mano. Boroqul è di un palmo più alto del pianale. Il mongolo guarda il khan. Il khan abbassa la testa senza smettere di masticare. Il mongolo con la scimitarra trascina via Boroqul.

Non vanno lontano. Lo porta vicino al suo compagno. Lo spinge in ginocchio. Boroqul non ha il tempo di fiatare. Il mongolo gli stacca la testa con un colpo di scimitarra.

Ci sono grida dappertutto. Dietro di me e davanti. Dalla mia bocca anche. Ognuno nella fila si guarda intorno, cercando chi gli dica che non è successo per davvero. Tentano un passo avanti o di lato pensando a scappare. Ma ci sono gli uomini a cavallo. La fila si allunga e si accorcia, sbanda a destra e sinistra. Poi si raddrizza e sembra fermarsi di nuovo.

Il ragazzo davanti a me non resiste e scappa. Corre gridando. Corre senza pensare. Uno dei mongoli a cavallo lo insegue. Lo raggiunge prima che abbia fatto trenta passi. Lo colpisce alla schiena con la lancia. Quello cade sanguinante. Il mongolo scende dal cavallo. Lo afferra dai capelli e lo trascina indietro. Finché è a uno sputo dalla fila. Tira fuori un coltello. Poggia il ginocchio a terra. Solleva la testa del ragazzo tirandogli i capelli e gli taglia la gola.

Non piangere, mi dico. Ma è tardi. Le lacrime già scendono. Il petto si gonfia per i singhiozzi. Mi sono pisciato addosso.

La fila si muove. Il secondo compagno è già in piedi accanto al carro. La fronte supera il pianale. Una spinta, un passo, un colpo di scimitarra ed è a terra morto. La fila fa un altro passo. Già misurano il prossimo.

Respiro forte. Tremo. Sputo il muco e le lacrime che mi scivolano in bocca. Faccio un passo dopo l’altro. Non voglio guardare verso il carro. Così guardo di lato. Guardo verso il khan. E vedo che anche lui mi guarda. Il suo sguardo e il mio si incrociano. Il Gran Khan dei Mongoli. Per un attimo penso che mi legga negli occhi. Che si chieda cosa provo. Cerco di mettere nello sguardo tutta la mia rabbia. Spero che sia sufficiente a ucciderlo. Poi prego che sia sufficiente a fargli pietà.

Ma lui non mi vede. Mi guarda come se fossi un sasso. Solleva una mano e con il dito stacca un pezzo di carne secca che gli si è infilato fra i denti. Sputa e guarda a terra. Quando solleva gli occhi sono diretti altrove. Un attimo ancora e dà un colpo di sperone al suo cavallo. Se ne va.

La fila prosegue. Solo due ragazzi davanti a me, ora. Uno è Sacha-beki. C’è un mucchio di corpi davanti al carro. I due mongoli con le scimitarre sono sudati. Le braccia sporche di sangue fino ai gomiti.

Portano al carro Sacha-beki. Lui è più alto di me di un dito. Troppo. A lui tagliano la gola. Spingono via il corpo con un calcio.

Portano un altro al carro. La testa non arriva al pianale. L’uomo piccolo lo porta via. Salvo.

È questo che ha deciso il khan. Risparmiate i bambini e ammazzate gli altri. E per distinguere gli uomini dai ragazzi hanno preso come misura l’altezza del carro.

È buio ora. È freddo. Il mongolo con la scimitarra mi viene incontro con passo stanco.

Respiro a fondo. Non piango più. Lui solleva il braccio e mi prende per la spalla. È il mio turno adesso.





Sposato, un figlio, Vincenzo Corvello è ricercatore universitario e insegna nel corso di Laurea in ingegneria Gestionale all’Università della Calabria. In passato, ha fondato una piccola società informatica, ora in liquidazione. Legge di tutto, dai romanzi, ai racconti, ai saggi. Lo appassionano i romanzi di genere, quelli con intrecci complicati in cui, però, alla fine tutto torna. Ha scritto con passione da ragazzo, ma, dopo l’università, solo saltuariamente. Nel 2018 ha ripreso a scrivere sistematicamente. Ha frequentato due edizioni di un corso di storytelling alla scuola Holden. Ha un romanzo e diversi racconti nel cassetto.

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“L’altezza del carro”, un racconto di Vincenzo Corvello per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni