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La donatrice di organi

È così da quando mi ricordo. Mentre negli occhi degli altri sta la meraviglia del momento, nei miei sta la malinconia del dopo. Di quella meraviglia cosa resterà? Qualcosa resterà? E quando gli altri bambini scrivevano delle vacanze di Natale, io scrivevo del terremoto. Loro immaginavano regni sconosciuti, principi e principesse, qualche sporadico drago, e io raccontavo di famiglie spezzate, edifici ridotti a macerie. Mi accarezzo piano il collo, è un tic che ho. Come sbadigliare quando sono nervosa. Quando ho sonno quasi mai. Mezza mia madre, mezza mio padre. Così come tutti. Una combinazione sfortunata? Guardo nei tuoi occhi e penso a tutte le domande che ho da farti, alle risposte che vorrei tirarne fuori. Alle cose che ancora non so. E poi sto zitta. Taccio, guardo attraverso. Mi concentro sulla perfezione della penombra. Attendo che sia tu ad aprire spontaneamente la porta e farmi vedere oltre quegli occhi. E impigliata e annoiata, aspetto. So già che a un certo punto te ne uscirai così, dirai che come con me mai prima, o che come con me da tanto tempo. Da tanto non era così. Si può essere annoiati a vent’anni? Bevo un bicchiere di troppo, mi accarezzo ancora il collo, déjà-vu tattile. Cosa resterà? Mio padre me l’ha sempre detto. Me l’ha detto quando anziché giocare sulla spiaggia facevo lunghe passeggiate guardando il mare. Ha detto che dovevo smetterla di sparire. Mi cercavano in mezzo ai miei coetanei, non c’ero. A piedi nudi, anche la sabbia se ne andrà. Lavata via dall’acqua salata. E poi mi nascondevo dentro gli armadi chiusi, aspettando di crescere tanto da non riuscire a entrarci più. Apro un poco anche me, illudendomi di avere il controllo. In silenzio, delicata. Cerco di fare piano mentre spero che tu non ti accorga di nulla. Quasi sempre ci riesco, ho imparato che se ti metto davanti uno specchio sembri più contento. Riflessi, immagini. Occhi spalancati. Cosa resterà? Patologico bisogno di formare legami sinceri, cieca negazione davanti all’evidenza dei fatti. È speciale. Diverso, unico, irripetibile. Qualcosa dovrà pur rimanermi tra le dita, rimanermi dentro, quando te ne vai.

Jeans e stivali da vaquero, minigonna di pelle e scarpe rosse. Tailleur. Costumi, maschere. La letteratura ne è piena. Yossarian con la divisa e Yossarian senza la divisa. Yossarian che rifiuta di indossare ancora la divisa. Nuda mi sento meglio, tolgo quello che sta di mezzo. Ti lascio scegliere, con calma, à la carte. Il menù davanti ai tuoi occhi. Con lo stesso agio mi muovo sul tuo corpo o per le strade della mia città. Sono la donatrice di organi. Scambio pezzi di me per un pezzo di verità. “Spegni la luce”. È un sospiro, e tu non mi senti. “Spegni la luce”.

Nel quartiere dove vivo si registra una rapina ogni due giorni. Esco di casa appena in tempo per l’appuntamento. Quando avranno rubato tutto cosa resterà?






Matilde Moro è nata a Padova nel 1997. Si è laureata in Giornalismo a Londra dove ha vissuto per quattro anni. Tornata in Italia, è alla ricerca di un modo per suscitare emozioni e comunicare la concretezza della realtà utilizzando le parole.

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“La donatrice di organi”, un breve racconto di Matilde Moro per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni