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ostinazione di un pesce illustrazione ragazza amo

Per l’ostinazione di un pesce

Quando sono giunti sul posto il suo corpo era gonfio, come se qualcuno ci avesse soffiato dentro per un’ora buona, e immobile quanto un pezzo di legno lasciato galleggiare sul pelo dell’acqua e trasportato dalla corrente.

In realtà, in quel laghetto artificiale nascosto dai campi di granturco e dimenticato da tutti o quasi, non c’è mai stata neppure l’ombra della corrente. Al massimo, quando tira un po’ di vento, una brezza leggera rotola giù dalle montagne; d’estate è piacevole percepirla sui peli delle braccia, te li arriccia tutti e ne copre di rughe la superficie, come il volto perplesso di un vecchio, e sembra ci siano delle minuscole onde a percorrerle. È pura illusione, però. Il lago Paradiso, frequentato perlopiù da zanzare grosse quanto un pugno, sta morendo – lentamente, ma lo sta facendo. Senza ombra di dubbio si sta prosciugando. Proprio come la ragazza poggiata sulla sua sponda fangosa, del tutto simile al pesce lasciato agonizzare dopo essere stato trascinato a riva da Giovanni. Sta attendendo di ricevere il colpo di grazia, quello che lo farà smettere di dimenarsi a destra e a manca, per cui è normale che faccia così, lui non ci sta, il pesce, non ha proprio nessuna voglia di morire in un modo tanto stupido e privo di dignità, appeso all’amo di un pescatore della domenica.

Giovanni indossa degli enormi pantaloni verdi e un giubbotto ricco di saccocce di cui non sa bene che farci, ed è deciso a procurare la cena. Non è indispensabile che lo faccia, il frigorifero è pieno zeppo, ma è utile per dimostrare a sua moglie Maria che il tempo passato fuori casa non è andato sprecato. È servito a prendere quel pesce, un piccolo, innocente e neanche troppo prelibato animaletto, un pesce gatto pieno di lische o una trota ingenua o una carpa non ancora cresciuta (Giovanni non sa distinguere l’uno dall’altro), con il quale potersi gloriare di fronte al muso duro di Maria, sempre più esasperata dal suo comportamento.

Ma questa è un’altra storia.

La volontà di spuntarla sulla moglie ha spinto quella povera anima (Giovanni) a recarsi nell’unico posto nei dintorni in cui poter incontrare un’anima più disperata della sua (il pesce) e a gettare il galleggiante ad appena un paio di metri dalla riva paludosa, nella speranza di poterla acchiappare. È questo il motivo per il quale Giovanni si trova lì, e ora che ce l’ha fatta, che l’ha incontrata, è pronto ad accopparla (neanche ci sperava più che abboccasse).

Il pesce si sta dimenando tra l’erba bagnata di sudore, quello di Giovanni non il suo, sfinito dalla lotta impari.

Dovrebbe essere felice Giovanni (non il pesce, sta morendo lui), al punto da ritenere sensato concedersi un bel sorriso. Piega gli angoli della bocca all’insù, la apre e spinge fuori i denti in quello che gli pare un bel modo di farlo, di sorridere, e aspetta. Aspetta una reazione del suo corpo, un corpo fiaccato dal peso della vita, vorrebbe un bel sorriso anche da parte sua, Giovanni, vorrebbe mostrasse anche solo un pelino di felicità. Niente.

L’analogia tra il pesce e la ragazza finisce qui, perché a quest’ora il primo è già bello che morto; Giovanni, dopo essersi ricomposto dal suo goffo tentativo di stare su con la vita, come gli suggerisce sempre di fare sua moglie, ha afferrato un pezzo di legno bello tozzo e ha cominciato a colpire il pesce sulla testa fino a sentire un crac, mentre la seconda sembra avere ancora qualche speranza.

Di ciò si convince Giovanni soffiando dentro il corpo della ragazza (lo sta facendo da almeno mezz’ora oramai) e schiacciandole il petto, esattamente come gli ha suggerito di fare l’uomo all’altro capo del telefono, quando ha chiamato il 118, appena dopo aver concluso la faccenda del pesce. Ecco perché il corpo della ragazza, quasi del tutto nudo, fatta eccezione per un paio di mutandine zebrate mezze consumate, si sta gonfiando.

Qui sorge un ulteriore problema.

Le manovre messe in atto da Giovanni non sono accurate come dovrebbero essere, ma in fondo non lo sono stati neppure i colpi che ha sferrato sulla testa scivolosa del pesce, che a forza di agitarsi, lo ha costretto a uno spargimento di gocce di sangue grumoso tutt’intorno a furia di bastonate.

Giovanni sta facendo del suo meglio. Vuole salvarla, ma non si è mai trovato in una situazione simile: a lui al massimo è capitato di uccidere (pesci, nient’altro, sia chiaro), non di restituire la vita. Non si sente a suo agio, l’idea non lo convince del tutto, sua moglie è la più ferrata in materia, è stata un’infermiera.

– Se la sente di provare a rianimarla? – gli ha domandato la voce al telefono.

– Ci posso provare – gli ha risposto lui, pensando: “Certo che no, come potrei? Ma cos’altro posso fare?” Giovanni ha osservato di nuovo il corpo, sembrava addormentato. – Come faccio? – ha domandato un attimo dopo.

Il tizio dall’altro capo glielo ha spiegato, al che Giovanni si è sfilato il giubbotto ingombrante, si è abbassato le bretelle dei pantaloni e si è inginocchiato a lato della ragazza.

La ragazza è giovane, ma un po’ più vecchia del pesce, steso accanto a lei con la testa fracassata. Indossa una parrucca biondo cenere che le copre solo metà della testa, l’altra metà è scura, quasi nera. La sua pelle, per quanto tesa e sul punto di lacerarsi, è curata. Ha il corpo da modella, anche se sua moglie non lo direbbe mai di una ragazza così, troppo volgare, penserebbe. Gli occhi sono screziati di verde acido e appena arrossati. Nell’ombelico si è raccolta parecchia acqua e pure un’alga, segno che quella pozza si sta proprio consumando.

– Bene, continui finché ce la fa… Le ho già inviato un’ambulanza, pochi minuti e sarà lì – si sente ripetere Giovanni dal microfono del cellulare, poggiato a terra tra l’erba.

Lui soffia e schiaccia, soffia e schiaccia, soffia e schiaccia, alternando i due gesti senza alcuna consapevolezza, meccanicamente, ma non succede un granché. Il corpo della ragazza è più rigido di quello del pesce, che con calma si sta dissanguando. Le branchie stanno colando.

“Perché capitano tutte e me?” si domanda tra sé e sé Giovanni.

*

– Era così giovane – si dirà tra qualche ora in paese, – Io so chi era! – dirà qualcuno, – Anch’io lo so – dirà qualcun altro, – Era una puttana – interverrà una donna, – Sì, ma voleva fare la modella – dirà di rimando un uomo, – Conciata com’era poteva solo fare la zoccola – ribatterà Maria, – Si chiamava Ana, ci ho parlato una volta, al bar di Gio – interverrà un ragazzo, con voce spezzata, – Era lì che adescava i clienti – dirà una donna (non quella di prima) apparsa accanto a Maria, – Era parecchio bevuta – dirà ancora Matteo (il ragazzo), abbassando lo sguardo sul suo negroni, – Non era neppure italiana – preciserà Teresa (la seconda signora), – È per colpa di gente così che il mondo sta andando a rotoli – interverrà Maria, – Voleva fare la modella, così diceva – aggiungerà Matteo, giocherellando con il ghiaccio mezzo sciolto sul fondo del bicchiere, – Bella era bella, si permetterà di commentare Carlo (il primo uomo ad aver parlato), mentre tutti gli sguardi gli cadranno addosso come mosche ammattite dal caldo.

Altri uomini (arrivati al bar di Gio durante le prime fasi della conversazione) accenneranno un sorriso al pensiero che Ana era proprio un gran pezzo di ragazza, tutta gambe e un seno grosso così, ricorderanno tutti.

– Non basta essere bella per fare la modella – dirà Maria, – ci vuole anche classe, portamento, eleganza – preciserà qualche secondo dopo, ringalluzzita da Teresa, seduta al suo fianco, – Diceva che gli mancava tanto così per avere i soldi e andarsene, per andare in città… a Milano – riprenderà a dire Matteo, con appena un filo di voce, – È quello il suo posto, per strada – interverrà di nuovo la signora più grassoccia (Maria), – non qui in mezzo alla brava gente.

A questo punto gli uomini non ribatteranno nulla. Carlo una volta ci è andato con Ana; povera ragazza, aveva proprio bisogno di soldi, le ha dato cinque euro in più del pattuito. Anche Renato ci è stato, per darle una mano, sia chiaro. Era appena arrivata in Italia, così aveva raccontato, ma era stata truffata e adesso batteva per poter restituire il prestito. La storia più vecchia del mondo, aveva pensato Renato la sera stessa al bar di Gio. “A loro piace fare quello che fanno, sennò non lo farebbero” (questo, però, Renato l’ha solo pensato tra sé e sé). Luca non ci è mai andato, ma avrebbe voluto farlo, eccome se avrebbe voluto. Era così bella Ana, e anche gentile, gli sorrideva sempre quando lo incrociava per strada. Aveva sempre l’aria malinconica però, a pensarci meglio. Un giorno le ha dato comunque dieci euro, senza pretendere nulla in cambio.

– Stava bevendo davvero tanto – dirà Matteo, senza badar troppo ai commenti di Maria, – si sarà fatta almeno tre negroni e un bianchetto, non la smetteva più.

– Che schifo – aggiungerà Teresa, aggrappata alla sottana di Maria, – si è anche messa a piangere a un certo punto – continuerà Matteo.

Renato penserà che lo aveva fatto anche con lui, si era messa a frignare a più non posso non appena finito; le aveva allungato dei soldi in più per farla smettere.

– Poi si è alzata – proseguirà Matteo, – barcollava tutta, non si reggeva quasi in piedi, è andata per di là – dirà standosene seduto e indicando con l’indice il laghetto Paradiso, mentre il sole starà sgocciolando gli ultimi resti di luce sul campanile della chiesa, poco più in giù del bar.

– Avremmo dovuto denunciarla, quella zozzona – dirà Maria, senza più nessuno ad ascoltarla, tranne Teresa.

Adesso tutti escono dal bar, attirati dal suono di una sirena. La polizia forse, o un’ambulanza, chi può dirlo. Non è passata per la strada principale, ma da fuori, dalla circonvallazione. Chissà dove sta andando? È pieno di cascine sparse per la campagna, se non sei del posto neppure sai che esistono.

Matteo sta guardando in direzione del laghetto.

*

Una questione da chiarire riguarda l’incapacità di Giovanni a mostrare un minimo di soddisfazione. Quando ha sentito la canna da pesca irrigidirsi sotto il peso di una vita acquatica rimasta agganciata al suo galleggiante, e dopo aver constatato, attraverso gli occhi quasi grigi che una volta erano azzurri, che proprio di un pesce si trattava, non ci è riuscito a lasciarsi andare, non è riuscito ad apprezzare quel piccolo momento di gioia sottratto ai tanti momenti di infelicità in cui sguazza tutti i santi giorni da almeno dieci anni a questa parte. Non sopporta più sua moglie, ma è troppo vecchio per cercarsene un’altra.

Ecco la spiegazione: Giovanni, dopo aver trascinato il pesce a riva, ha sollevato lo sguardo in alto e questo, per un attimo, è rimasto stordito dalla poltiglia di sole che in un paio d’ore sarebbe andata a morire al di là della collina, e subito dopo si è abbattuto, lo sguardo, su una sagoma scura – un pezzo di legno forse, un animale, possibile – a bagno nell’acqua. La vista di Giovanni non è più quella di una volta. È un essere umano, si è detto poi, e sta galleggiando, non sta facendo il morto in mezzo al lago per abbronzarsi un po’, e quando i suoi occhi hanno messo a fuoco la situazione, il suo cuore ha preso il controllo sulla mente, mostrandole come non ci fosse proprio un bel niente per cui stare allegri.

*

È stanco morto Giovanni, di soffiare e schiacciare, vorrebbe fermarsi, gli sembra tutto inutile. Dalla bocca della ragazza è uscito pure del vomito, odoroso d’alcol. Per poco non lo fa svenire, una puzza tremenda, ma proprio mentre sta per gettare la spugna sente una sirena in lontananza. L’ambulanza di certo. “Non troveranno mai il posto, è troppo nascosto,” pensa.

– Sento l’ambulanza – dice al telefono, – le vado incontro.

– No no, continui a rianimare la ragazza – si affretta a rispondere la voce all’altro capo, ma è troppo tardi. Giovanni si è già alzato, abbandonando i due corpi, quello della ragazza e quello del pesce.

A questo punto lasciamo per un attimo il pescatore e torniamo al pesce e alla ragazza. È vero, ho mentito, l’analogia prosegue.

Immaginatevi la faccia del pesce.

Proprio non voleva stare fermo, tremava al pensiero di ricevere un colpo secco sulla testa, era disposto a soffrire pur di convincere l’uomo con il bastone tra le mani a posare quel coso e rigettarlo in acqua, ma non poteva far altro che sbattere la coda e piegare la testa a destra e a sinistra, in una sorta di No, No, ti supplico (mica parla un pesce!). Gli occhi di Giovanni erano percorsi di bontà, questo lo aveva capito il pesce, e proprio su quel sentimento aveva cercato di far leva per ottenere la grazia. Maria non lo guarda nemmeno più in faccia Giovanni, non sa cosa il marito racchiude nei suoi occhi.

Adesso immaginatevi il volto di Ana, morta affogata; non arriverà mai a fare la modella.

Lei non ha voluto saperne di riprendersi, si è rassegnata al suo destino, non proprio quello immaginato un anno prima, quand’era arrivata al paese, ma pur sempre il suo destino. Non si è dimenata, non ha protestato, non ha mostrato segni di volere lottare. A lei andava bene così. Non ha chiesto lei a Giovanni di starle accanto e cercare di salvarla. È andata lì sola, e sola voleva morire, senza recare alcun disturbo a nessuno.

Ora immaginate il volto di Maria.

Tre ore dopo i fatti esposti (quando il corpo di Ana sarà già stato rimosso), Maria verrà convocata dai carabinieri del comando di Strambino per alcuni chiarimenti. “Dove diavolo si è cacciato Giovanni?” penserà mentre guida, “mai che si faccia vedere quando serve!”

Quando l’aveva sposato non si comportava così, proprio no, era sempre al suo fianco.

Ma questa è un’altra storia.

Immaginate ancora la faccia di Maria quando vede il marito chiuso in una stanza, insieme al maresciallo. “Cosa ci fa lì?” pensa, “cos’ha combinato?”

Immaginate infine il suo volto alla notizia che Giovanni, mezz’ora prima, è stato pescato sul luogo di un delitto, un laghetto di pesca poco fuori Vische, mezzo svestito, sporco di sangue, in chiaro stato confusionale, forse ubriaco. Nello specifico si tratta del corpo di una ragazza di ventisei anni, una certa Ana Cescu, anch’essa nuda e imbrattata di sangue.

Maria, a quel punto, si lascia cadere all’indietro su una sedia, sfinita, e pensa: “Perché era lì? Cosa diavolo ci faceva lì? A lui non piace neppure pescare”.

Ve l’immaginate?

*


Davide Rissone ha 34 anni, vive a Genova ed è un appassionato di musica noise-rock anni ’90, di jazz-core e di letteratura postmoderna. Ha esordito nel 2017 con la raccolta di racconti Episodi bizzarri ma circoscritti (La Gru) a cui ha fatto seguito il saggio etnografico Come se fossero Dei. Pratiche di genere sul Cammino di Santiago, uscito nel 2018 per Cleup. Alcuni dei suoi racconti sono comparsi sulle riviste Risme, Alibi-Altrove letterario, Il Paradiso degli Orchi, Inkroci e il Loggione letterario. Inoltre, è tra gli ideatori del manifesto della corrente letteraria Iper-realismo-pop (iper-realismo-pop.blogspot.com)

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“Per l’ostinazione di un pesce”, un racconto di Davide Rissone per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni