Quadrilogia Bianca
I
Un uomo e una donna sono sdraiati nudi una accanto all’altro.
Il corpo della donna è una cartina tornasole lieve e trasparente.
A guardarla così fragile si ha paura di romperla
e impegna di avvicinarsi con precauzione.
L’uomo è a voce spenta,
ma a ogni movimento di palpebra
si può intuire il suo pensiero,
osceno, quando se l’era trovata difronte.
Muovendo la sua grande bocca rossa lei gli disse che
sprecare quel pensiero fosse la vera oscenità.
Egli a voce spenta non poté che darle ragione,
rapito dalla malia del suo labiale.
Così violò la prima regola
che quelli incalliti come lui
non dovessero intendersela
con quelle come lei.
Avrebbe fatto una stronzata,
si vedeva lontano un miglio che lei non era una da trattare in fretta.
Lei lo stava fissando strofinandosi il collo,
la mano si era fatta strada tra le pieghe dei capelli
che le cadevano a ciocche pesanti sulle spalle.
Lo fece stirando il collo e alzando il mento
e per lui fu come una passeggiata
diretta fin dentro la sua scollatura
e gli liberò inaspettatamente un forte desiderio.
“Allora, mangiami…”
disse il labiale, di lei.
Scandì quel desiderio candidamente, con ovvietà ed egli,
mentre sapeva di doverla respingere
senza più convinzione,
si mosse esattamente all’opposto.
Mangiarono qualcosa, si accoppiarono
e si mangiarono ognuno
nell’appartamento di lei,
una piccola scatola buia e disordinata al pianterreno
con attorno siepi appassite.
L’uomo a voce spenta pensò perché le avesse fatte sfiorire
e il labiale di lei ancora infuocato rispose:
“non ho il pollice verde…”
Lui chiuse gli occhi e lei non capì cosa intendesse,
non riusciva a leggere i suoi pensieri.
Si accoppiarono di nuovo.
Il giorno dopo lui riempì un bustone di sterpaglie tale
che il perimetro della casa divenne disadorno.
Lei un po’ ci rimase male perché si era abituata a quell’ingombro,
il suo labiale si curvò all’ingiù.
Lui a voce spenta la trovò intrigante con quell’espressione
e lei non sentì più il bisogno di scusarsi.
Il giorno dopo ancora
l’uomo a voce spenta con le palpebre arrossate dalla calura
smosse la terra e sollevò zolle umide dappertutto.
“Qui ci batte il sole, ci farò un pergolato” pensò.
Lei prese le chiavi di casa e scappò via lasciando la porta aperta.
Al suo rientro
l’uomo a voce spenta aveva piantato della vite sotto il pergolato,
voleva farle sentire il profumo del mosto di uva cotto.
Lei s’inumidì il labiale con la lingua
e l’uomo a voce spenta non riuscì a resistere,
si accoppiarono nuovamente.
L’uomo a voce spenta scavò delle buche profonde,
per piantare bene le radici.
II
L’uomo a voce spenta
stava seduto all’ombra,
nel suo immenso silenzio.
La luce ottobrina passava attraverso il pergolato,
disegnava bizzarri intrecci di linee sulla sua fronte bagnata di sudore.
Ho la pelle sempre più sottile,
gli disse la donna muovendo le sue labbra rosse,
ogni anno si affina e il cuore
mi martella forte come un tamburo.
Vorrei che restassi con me!
L’uomo pensò in un lampo
al tempo che ci avrebbe messo per la raccolta,
la spremitura e la bollitura del mosto,
dopo di ché accettò.
Chi li aveva veduti a parlare
non li pensava una coppia.
Lei non avrebbe potuto mantenere un segreto,
che fosse uno soltanto
e a l’uomo si confondevano i pensieri
come i bagliori di quella giornata,
vibranti tra il fogliame.
La notte dello stesso giorno si accoppiarono,
franchi che fosse veritiero
quello che di loro pensavano tutti.
Il mattino lui si alzò alla buonora
per pigiare i grossi chicchi d’uva
che aveva seminato tempo addietro e raccolto il giorno prima,
nel silenzio il corpo nudo di lei non se ne accorse
e continuò a dormire.
Aprì gli occhi quando il profumo intenso del sobbollire del mosto
entrò tra le pieghe delle lenzuola che l’avvolgevano.
Si alzò per seguire il richiamo di quell’aroma
e trovò l’uomo a voce spenta contento
di esser riuscito nella promessa che le aveva fatto.
Quando spense il fuoco e il mosto smise di sobbollire
il silenzio divenne forte e si sentiva assordante
il martellare nel petto di lei.
Lui le guardò il corpo che traspariva,
ancora poco e di questo passo sarebbe svanita,
se non fosse stato a causa di quel rumore assordante
che la teneva in piedi.
E fu così.
Quando lui stava per andare
gli succedeva sempre qualcosa che lo tratteneva.
Stavolta
pensò che avrebbe dovuto fare il necessario per quell’assordamento,
uno specialista del silenzio come lui
le avrebbe trovato la soluzione migliore.
In comunione con il lievito madre, la farina, lo zucchero,
il tuorlo d’uovo, olio, un pizzico di sale e dell’uva passa rinvenuta, impastò a mano versando come se fosse esplosivo
il composto di mosto raffreddato
poi gli diede una forma tonda, liscia e morbida
che bucò al centro e allargò in modo irregolare per lasciarle a lievitare
fino a quando si fosse richiuso il buco.
Cosa che fece restare lei di stucco,
quando davvero disse che era cosa viva,
l’impasto si gonfiò e tutti quei buchi si richiusero.
Infornarono le ciambelle e
una moltitudine di profumi deflagrò attorno a loro.
Quando furono cotte
si sedettero una difronte l’altro a mangiare quelle prelibatezze
perché il sapore superò di gran lunga
l’aroma che le aveva preannunciate.
Lui le chiese,
come ti chiami?
Lei ascoltò per la prima volta la sua voce,
era inattesa.
Bianca, rispose.
III
Bianca non chiese a l’uomo a voce spenta come si chiamasse
perché era superstiziosa.
Visto, che si era deciso a parlare,
lei sembrava avesse paura.
Non voleva rompere i suoi indugi
di quando lui era a voce spenta
e lei godeva di qualsiasi errore d’interpretazione.
Bianca scoprì che le parole pronunciate da lui
le pativa.
Il tono della voce dell’uomo era roco,
arrivava da profondità che prima
i pensieri gli avevano ben nascosto.
Bianca restò turbata,
lo vide invecchiare a sentirlo e non se l’aspettava.
Ripose tutte le domande che avrebbe voluto soddisfare
e rispose a quelle di lui durante il pasto
circondata dall’aroma stordente del cibo.
Le tracce della vita dell’uomo
si delinearono più chiare di prima
alle fattezze di lei.
Egli un poco si dispiacque,
ma non voleva darlo a vedere.
Il corpo di Bianca era una cartina tornasole e lui si fidava per questo,
non perché avesse le labbra sempre irrorate
e gli piacesse da matti morderle.
Che diavolo può combinare il tono di una voce,
pensò lui dal più profondo ma non lo disse, stavolta,
e un corpo senza tanti infingimenti, aggiunse.
Gli fu impossibile tornare a voce spenta oramai,
ma se non altro diede loro sollievo
da quel martellare che lei aveva in petto
perché a forza di parlare non lo sentirono più, forte,
solo ogni tanto a ricordarglielo.
E di questo lui si consolò perché fu un altro
dei propositi che aveva portato a compimento.
Non vi erano dubbi sul fatto che fosse un uomo di parola
e ora soprattutto,
ma per non vedere più la fragranza del corpo di Bianca
le disse di coprirsi,
come tutti i frutti che in questa stagione
hanno il guscio.
Era autunno.
IV
I due si addormentarono,
lui con una mano sul seno di Bianca
così che controllasse se il petto ancora le martellava forte
e nell’altra una lama
per recidere la vicinanza che cresceva tra di loro.
Tutte le volte che al risveglio
l’uomo a voce spenta muoveva la mano,
sembrava una bocca affamata sul corpo di lei
e allora dimenticava quella lama tagliente.
A Bianca piaceva farsi mangiare dalle sue mani,
manteneva gli arti caduti
e si offriva come un sostanzioso banchetto,
ebbra, desiderosa
per questo era disarmante,
completamente nuda e con gli occhi ancora bendati dal sonno.
Avrebbe voluto dire che gli occhi aperti
potevano pure starci, se volevano,
ma niente a che vedere con l’ascoltare nel buio
la passione che aumenta
ogni volta che il fiato, di lui, si avvicinava.
In questa tale circostanza l’uomo a voce spenta
dovette assicurarsi che il cuore di Bianca fosse abbastanza forte.
Il petto si era ingrossato a forza di colpi
e lui, che assisteva incolume,
pensò bene di parlarle visto, che da quel dì
aveva rotto il ghiaccio e in definitiva non gli era dispiaciuto.
Bianca era priva di guscio
non sapeva mascherare e nemmeno nascondersi un difetto
e l’uomo aveva già troppe rughe sul volto.
Lei si era lasciata coprire.
Quando lui la montò
aveva i polmoni nel torace che le scoppiavano
e l’uomo l’innata attitudine di studiarsi bene il tempo
e anche il respiro
in quello spazio di rivolta consumata assieme
che succede a volte davvero,
così, come ve lo sto raccontando.
Lui si avvicinò con prudenza al suo orecchio,
si distese sul petto che assordava aspettando di franare di colpo.
Chiuse gli occhi e la colpì due, tre volte più forte.
Quando la sua bocca raggiunse l’udito di Bianca,
le labbra disarticolarono qualcosa d’incomprensibile,
sciente di esser loro soltanto a saperne già,
di quelle piccole debolezze.
Marina Novelli nasce a Roma il 18 settembre 1961 e si è laureata all’Accademia di Belle Arti in Scenografia, Arredamento e Costume.
Esordisce professionalmente lavorando nel cinema e nel teatro come Scenografa e Arredatrice a fianco di Mario Garbuglia e al Teatro Eliseo di Roma per la Compagnia di Gabriele Lavia, proseguirà la sua attività artistica come Illustratrice per alcune riviste (LOOP e MONO) e come Fumettista.
Pubblica nel 2010 la sua prima Graphic Novel per la Tunuè, Editori dell’Immaginario, dal titolo “CAMBIO PELLE”, come autrice di storia e disegni.
Svolgerà la sua attività creativa tra Roma e Parigi come Illustratrice, Scenografa e Costumista firmando numerose collaborazioni teatrali e cinematografiche, tra le ultime per il film “EDUCAZIONE SIBERIANA” regia di Gabriele Salvatores, tratto dal best seller di Nicolai Lilin e per la commedia teatrale “JE SUIS SEUL (E) CE SOIR” regia di Fabrice Eberhard a Parigi.
Nel dicembre 2015 pubblica il suo primo romanzo “I BANNUNATI” edito dalla casa editrice Alter-Ego. Questo libro è arrivato finalista ottenendo una menzione di merito al Premio Nazionale di Poesia e Narrativa AlberoAndronico 2017.
“NON VOGLIO SALUTARE NESSUNO” è il suo secondo romanzo, tra i primi cinque finalisti premiati al Concorso Zeno edizione dicembre 2019 sezione romanzi inediti.
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