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Teste calde

Robbie venne messo giù con cautela. Il legno che rivestiva la base della vetrina sprigionava un tepore inaspettato, rispetto all’argento freddo del vassoio in cui lo avevano trasportato. Si sentiva intorpidito, e si chiese come potesse essere possibile. Doveva avere a che fare con quella storia dell’arto fantasma di cui gli avevano parlato i medici. Davanti a lui, al di là del vetro, bolliva l’asfalto di una comune strada statale e il muro scrostato di un palazzo bagnato da una luce rosa e malata di polveri sottili. Tre paia di occhi ruotarono nella sua direzione. Seguì un silenzio eloquente.

«Cosa ti è successo?» chiese alla fine il Vecchio.

Aveva una zazzera sale e pepe un po’ storta e il viso solcato con l’aratro. La Ragazza dai lunghi capelli bruni gli sorrise incoraggiante.

«Incidente in moto,» sospirò Robbie, «frontale con un camion. L’autista ha avuto un colpo di sonno. Non ricordo niente. Mi sono risvegliato due settimane dopo la procedura, in ospedale.»

«Chi ha firmato la liberatoria per la procedura?» chiese la Nobildonna. La sua testa era sormontata da un’acconciatura elaborata che sembrava starle su rigida come un’impalcatura.

«La mia ragazza.»

«Tu sei d’accordo?» inquisì il Vecchio.

Robbie piegò la testa di lato.

«È ok, credo,» biascicò, «meglio che starsene secchi in un letto, forse. Cioè, in realtà devo ancora abituarmici. Sono uscito dall’ospedale solo due giorni fa e una volta a casa…»

«…hai trovato ad aspettarti la lettera di assunzione dal Ministero. Con le migliori congratulazioni, immediata e senza appello,» concluse il Vecchio. «Bella fregatura.»

«Perché sei sempre così polemico?» trillò la Nobildonna.

Portava degli orecchini che, a vedersi, dovevano sicuramente costare di più della moto di Robbie. Quello destro le pendeva storto, sul punto di staccarsi dal lobo.

«Sono stata io stessa a richiederlo,» spiegò la Nobildonna. «Ero perfettamente cosciente quando il mio medico mi ha informata di questa possibilità. La metastasi era già estesa in molte zone del corpo ma l’attività cerebrale era del tutto nella norma. In questo modo, ci vorrà ancora qualche anno prima che i miei parenti si litighino l’eredità.»

Il Vecchio grugnì. La Nobildonna lo ignorò.

«Oltretutto…» continuò con sussiego, «trovo che sia una decisione onorevole. Ciascuno deve dare il suo contributo alla crescita della comunità, al meglio delle proprie possibilità. Quei ragazzi down, per esempio. Con la loro associazione, li hanno messi a pulire le strade. È una bella cosa, no? Io ritengo che quello che stiamo facendo sia un gesto nel contempo bello, giusto e doveroso. Invalidi sì, ma utili alla società!»

Il Vecchio schioccò la lingua con derisione.

«Soltanto credevo di avere più scelte,» fece Robbie, «cioè, altre possibilità.»

«Ragazzo mio, non so se avevi un lavoro prima dell’incidente,» disse la Nobildonna in tono ragionevole, «ma immagino che tu l’abbia trovato in base alle tue qualifiche. Non potevi mica fare a tuo piacimento! Ora, nella tua condizione, si è soltanto ristretto un po’ il campo, ma devi ammettere che hanno cercato di fare ciò che si può.»

«È che non avrei mai pensato che mi sarei ritrovato a fare un lavoro del genere,» ammise Robbie.

«Meglio che essere inoperosi,» ribatté altezzosamente la donna.

Robbie si rivolse alla Ragazza, che finora era rimasta in silenzio.

«E tu come ci sei finita, qui?»

Lei abbassò le palpebre pesanti.

«Non mangiavo più,» disse con voce così bassa che quasi Robbie dovette chiederle di ripetere.

«Okay,» convenne lui, «e come è avvenuto il passaggio alla tua condizione attuale?»

«Rottura delle pareti dell’esofago,» sussurrò lei.

«Capisco,» in realtà non capiva affatto. «Ti ha convinto la tua famiglia?»

La Ragazza assentì. Il riflesso rosso intermittente le colpiva l’ombreggiatura tra la mandibola e il collo, infiammando ritmicamente la pelle di un eritema innaturale.

«Mia madre non era ancora pronta a lasciarmi andare. Le avevano assicurato che avrei potuto vivere un futuro normale.»

Il Vecchio emise una specie di nitrito.

«Sapevi che saresti finita qui?»

«No, ma sono contenta che i miei abbiano firmato per farmi fare la procedura,» sussurrò, «per me è il massimo, cioè. Non avere un corpo.»

«E ti sembra che il gioco sia valso la candela?» intervenne il Vecchio. «Che questo corrisponda alla tua idea di un futuro normale?»

La Ragazza abbassò gli occhi, ferita.

«Cosa ci vedi di anormale in questo?» lo aggredì la Nobildonna.

«Tutto!»

«Quello che tu definisci anormale si chiama progresso

Il Vecchio guardò su Robbie.

«Non ho chiesto io di farlo,» gli disse, «non ho avuto una briciola di potere decisionale in questa storia. Sono stati i miei figli a scegliere per me, mentre ero incosciente sul letto d’ospedale.»

«Coma?»

«Infarto miocardico,» rispose il Vecchio. «A sentir loro, mi hanno salvato per il rotto della cuffia. Quando mi sono risvegliato così, erano intorno al mio capezzale tutti contenti. Se vuoi sapere come la penso io, avrebbero anche potuto farsi i fatti loro.»

«Non le piace stare qui?» azzardò Robbie.

«Zitti tutti!» ammonì la Nobildonna con un sibilo.

Dietro di loro risuonò un ticchettio di passi, poi una mano si allungò ad aggiustare il ciuffo storto del Vecchio, allineandolo al suo posto. Un pollice e un indice si protesero verso la Nobildonna e le raddrizzarono l’orecchino. La Nobildonna seguì il movimento delle dita in silenzio, gli occhi colmi di muta e adorante gratitudine. I passi si allontanarono.

«È la sovrintendente,» spiegò la Nobildonna. «Lei non sopporta che si parli, durante il turno di lavoro. Spaventiamo i clienti.»

Il Vecchio si rivolse a Robbie, la fronte come una mappa del tesoro.

«Capito cosa intendo, adesso, figliolo? Dieci ore bloccati qui dentro e non possiamo neanche fiatare.»

«Per favore!» lo schernì la Nobildonna. «In fabbrica potevi forse metterti a chiacchierare in orario di lavoro?»

Il Vecchio le scoccò un’occhiata torva.

«Forse a te questa trovata sembrerà caritatevole come una delle tue cene di beneficienza, mia cara, ma io sono stato uno schiavo tutta la vita, e viste le mie condizioni non credo sia troppo chiedere soltanto di essere lasciato in pace.»

La Nobildonna si rivoltò come una vipera.

«Oh, smettila. Cosa avresti preferito? Stare tutto il giorno a ciondolare sulla cassapanca di tuo nipote come un inutile soprammobile?»

«Avrei preferito MORIRE,» ringhiò il Vecchio con una violenza tale nella voce che la Ragazza trasalì, e si turbò così tanto che si mise a piangere.

Spesse lacrime scivolarono giù per le guance e si raccolsero nell’incavo del collo.

E all’improvviso cominciò a frizzare.

Iniziò come un tic spasmodico, un movimento impercettibile. La Ragazza strizzò una palpebra e per un attimo Robbie credette che gli stesse facendo l’occhiolino, supposizione che gli mise addosso un colpevole senso di lusinga. Poi gli occhi le si allargarono come quelli di una rana, e prese a saltellare emettendo il ronzio di una fresa dentale impazzita. Fumo nero iniziò a salire dal basso.

«Oh cielo!» esclamò angosciata la Nobildonna, il grido coperto dall’urlo penetrante di una sirena.

La Ragazza continuava a vibrare in silenzio, avvolta nella nebbia, la lingua gonfia e spessa penzoloni, gli occhi fuori dalle orbite. Piccoli lampi crepitavano sulle ciglia e sulla punta delle orecchie, i capelli le si erano drizzati sulla testa in tutte le direzioni. Da dietro arrivarono delle imprecazioni, poi accorse un ticchettio allarmato. Due mani si chinarono sulla Ragazza, frugarono tra capelli elettrificati, sotto il collo. La sirena si interruppe di colpo, lasciando un silenzio assordante quanto il suo berciare insopportabile. La Ragazza cessò all’istante di sussultare. Non si mosse più. Le lacrime le erano evaporate sulle guance, gli occhi ora erano strabici, fissavano immobili angolazioni differenti.

Le mani la sollevarono per le orecchie e se la portarono via. Nell’aria aleggiava un effluvio nauseabondo di capelli bruciati. Nello spazio vuoto lasciato dalla Ragazza era rimasta un’impronta chiara e priva di polvere, a forma di cerchio.

Seguì un breve, pietoso silenzio.

«È un bel ricatto, eh?» ringhiò alla fine il Vecchio, «Il progresso… Per un motivo per un altro sei dato per spacciato, ma il progresso ha trovato il modo di farti sopravvivere. Quando il corpo non risponde più, ma per un caso fortunato non ti si è spappolato il cervello, ecco che arriva il progresso a consentirti di rimandare il definitivo addio! Beh, tanti complimenti. Ma non devi dimenticarti, ragazzo, che questo del progresso non è un regalo, è un debito. E come ogni debito, va estinto. Se ti teniamo in vita, devi fare qualcosa per noi che vada oltre il semplice vivere, col cazzo che puoi semplicemente vivere. Ti è stata messa la soluzione a disposizione, ma te la devi guadagnare. Devi essere funzionale. Invalido, sì, ma un invalido funzionale. Datti da fare. Devi darti da fare, altrimenti non sei solo un handicappato, sei un handicappato parassita, e che senso ha aver speso soldi ed energie per salvare la pelle di un handicappato parassita? Immaginate quando arriveranno a produrre la ricetta della vita eterna, quando scopriranno i benefici di venderla su scala industriale, dovrai passare la tua vita eterna a guadagnarti la vita!»

Il Vecchio adesso stava urlando, accalorato dal suo stesso pensiero. Ritornò il ticchettio minaccioso che, monitorato il ritorno della quiete, sfumò.

«L’esistenza è un contratto stipulato male da chi ti ha preceduto,» sentenziò il Vecchio ansimando come un ronzino.

«Ma…» belò debolmente la Nobildonna. L’orecchino destro le si era di nuovo staccato dal lobo e giaceva tristemente accanto al dispositivo elettronico fissato alla base del collo, a faccia in giù. «…il contributo alla comunità… fare la differenza…»

«Io ME NE FOTTO di fare la differenza!» ruggì il Vecchio con la schiuma alla bocca, e sputò con disprezzo.

Lo scaracchio colò sulla vetrina del negozio di parrucche con la lentezza disperata di bava di lumaca.

 

 
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Silvia Romano nasce a Formia (LT) nel 1992 in inverno, stagione universalmente associata alla quiescenza, all’ingenerosità della natura, alla melma e in generale alle cose tristi. In qualche modo doveva pur difendersi.

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“Silvia Romano”, un racconto di Silvia Romano per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni.