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illustrazione Vischiosità - Aurora Dell'Oro - SPLIT - Pidgin Edizioni

Vischiosità

Mara tiene il cubetto tra l’indice e il pollice della mano destra. Lo mette in controluce e ci guarda attraverso, chiudendo l’occhio sinistro. I polpastrelli formicolano, ma prima che il contatto con la superficie diventi insopportabile, il calore della mano comincia a sciogliere il ghiaccio. Fa scivolare quel piccolo sorso d’acqua tascabile nel palmo e con un gesto svelto del polso se lo butta in bocca. Muove un po’ la mandibola per abituarsi al freddo improvviso. Aspetta che la lingua riacquisti sensibilità, poi comincia a masticare. 

Il primo morso è fatto di aghi e dolore. Le otturazioni nei molari scricchiolano. Il secondo morso è più facile. Dal terzo in poi è quasi gradevole. Degusta la croccantezza dell’acqua, ascolta con attenzione il rumore che produce mentre si frantuma. La trasforma in un impasto denso. Lavora con metodo. Alla fine deglutisce. Acqua, saliva, lacrime di nero mascara.



L’estate è seguita alla sua scomparsa. Scomparsa: è la parola che lui ha usato per descrivere gli eventi a chi gliene chiedeva conto. Mara ovviamente si sarebbe espressa in altri termini, ma non era presente per poterlo fare, e il pensiero che non potesse contraddirlo gli procurava sollievo; un sollievo impalpabile, ma pur sempre lenitivo, nonostante fosse consapevole che non avrebbe dovuto importargli niente, di quel che avrebbe detto lei. In ogni caso, prima o poi, sarebbe guarito. Nei giorni in cui era abbastanza calmo da relativizzare l’accaduto si rendeva conto che alla fine anche quel nervo che gli batteva giorno e notte nella tempia destra (lei, era sempre lei) si sarebbe stancato di ricordargli

le dita a candelabro, ad esempio, 

o la sua falsa remissività. 



La polvere agostana gli abbacina gli occhi, nonostante li tenga quasi chiusi dietro le lenti scure. Mancano diverse ore a mezzogiorno, cinque per la precisione, cinque ore prive di impegni che si accinge a snocciolare con pazienza, fino all’inizio del turno. Si dedica a calcoli che gli richiedono di operare su una base che gli è poco familiare, e questo già gli basta, per indursi a una concentrazione che lo allontana da sé; per fortuna è un uomo semplice, si accontenta di qualche piccola variazione. 

La passeggiata che lo ha portato dall’appartamento in cui ha dormito (l’appartamento di due sconosciuti, amici di amici, che gli hanno chiesto, o che gli hanno piuttosto offerto, conoscendo la sua situazione, di alloggiare nella loro casa vuota, per tenere in vita almeno trenta piante, comunque ostili alle sue cure, così gli pare, per le due settimane che avrebbero trascorso a Berlino), fino al caffé proprietario del tavolo piccolo, rotondo e appiccicoso dietro cui si è seduto, gli ha procurato un lieve batticuore. Si è addestrato nel non darlo a vedere. Lo disperde poco sotto il diaframma, lascia che si propaghi nello stomaco, che affondi nel midollo e lì si plachi. Pensa fugacemente alle prescrizioni mediche sotto alla tazza rotta, al giorno in cui si deciderà a usarle per fissare un appuntamento durante il quale qualcuno gli comunicherà (forse) l’inevitabile. Eppure è ancora giovane. 



C’è un bicchiere sul tavolo, è vuoto. Lo afferra e affonda nella trasparenza del vetro. Il suo sguardo è un insetto preistorico. S’invischia facilmente. Lui è distratto, lo lascia dovunque: appeso ai cornicioni; pencolante da una guglia; incastrato sotto una nuca. Lo perde spesso. A volte qualcuno glielo riporta, altre volte deve andare a cercarselo da solo. Ma non sempre può farlo, perché è molto impegnato. Dal lavoro, soprattutto. Allora deve aspettare che torni. L’attesa può durare a lungo, ma è un uomo allenato alla pazienza, che è pure la sua virtù migliore. Gliel’hanno detto in molti, nel corso degli anni: tu sei proprio paziente. E sicuro, a lui faceva piacere sentirsi apprezzato per un lato di sé che aveva sviluppato suo malgrado, senza sforzo. Gli aveva procurato una piccola certezza su cui appoggiarsi ogni mattina, la avvertiva quasi fosse una cosa viva, piacevole e un poco fastidiosa come una pietra levigata sotto il piede, e ripetersi di essere così, un uomo di cui tutto si sarebbe potuto dire, tranne che non fosse paziente, gli sembrava dovesse conferirgli prestigio. 

Si disancora dal bicchiere, a fatica, e lo posa con cura, prima di volgersi verso la cameriera in attesa. Di lei nota subito il polso, solo il polso, robusto senza essere grossolano, allenato nel sorreggere vassoi e dotato di un’intelligenza tutta sua, un’intelligenza di mestiere. Ne segue i movimenti, allacciati in un polsino pulito, che le permettono di appuntare gli ordini sulla pagina di un bloc-notes sgualcito: un tè nero senza limone per il tavolo numero quattro, caldo, nonostante l’estate, mezza bustina di zucchero lasciata sul piattino e uno scontrino infilato nel portafoglio prima che la brezza lo soffi lontano. 



Di Mara sa soltanto che è andata in Francia, a Rosendael, circoscrizione di Dunkerque. Aveva dei parenti laggiù, degli zii, o dei cugini, figli di figli di emigranti contadini, una storia di cammino vagamente stucchevole e sicuramente abbellita per incantare i bambini di casa, per le volte in cui chiedevano che fine avesse fatto quel tal parente, o quella donna alta e scura con le tasche piene di caramelle. Lei gliel’aveva raccontata un giorno che erano in montagna, offerta come un frutto candito. Peccato che i dolci lo stomacassero. Aveva corrisposto un sorriso cortese all’espressione di delizia infantile di Mara, sperando che non se ne accorgesse, che fosse troppo presa dalla sua epica familiare per accorgersene. Ma del resto non sarebbe importato, perché era dicembre, fuori c’era la neve, poca ma c’era, e loro erano felici. Quasi niente si ricordava, della storia di Mara, solo qualche dettaglio; tuttavia, gliene era rimasta l’impressione che fosse piuttosto comune, una roba da depliant museale insomma, e poi Mara non era capace di raccontare, glielo rimproverava spesso, aggiungendo, con una punta di cattiveria gelosa, che gli amici l’apprezzavano perché sapeva ascoltare, ma era una pessima intrattenitrice. Lei incassava senza protestare, poiché rientrava nel loro accordo implicito, quella forma di onestà estrema, davanti a cui nessuno dei due avrebbe dovuto offendersi, benché lei preferisse l’agilità del fioretto ai colpi di sciabola.  Esposta al circoscritto disprezzo di lui, Mara riconosceva di avere una voce poco interessante, una cadenza che allungava le frasi in clausola. Faceva finta di arrabbiarsi con se stessa, muoveva le mani come se si fosse scottata, e lui capitolava in un vago e languido senso di colpa, da cui sapeva uscire come purificato. Ora si rende conto che era esattamente quello che lei si aspettava; una capitolazione involontaria, in virtù della quale redistribuire equamente l’esercizio del potere – ovvero del male che erano in grado di farsi e che, dopotutto, lui era convinto di sapere compensare. L’ascoltava poco, è vero, però la guardava, continuamente. La guardava talmente bene da avere l’impressione che le iridi le si fossero stinte addosso – lui che una volta aveva iridi scure, quasi nere; ora, invece, sono di un castano slavato che toglie saturazione ai ricordi. Finalmente.  



Aveva pulito i tappeti strinati, le piastrelle annerite, il sottile strato di fuliggine sopra i sanitari. Nel frattempo lei si era alzata tenendosi una mano sul fianco, il corpo raggomitolato in pieghe doloranti. Non gli aveva permesso di starle vicino. Il pigiama giaceva ai suoi piedi; lei lo fissava con uno sguardo in cui lui leggeva rammarico. Era preoccupazione. La preoccupava l’idea del tempo che avrebbe impiegato per tornare a essere a suo agio con quella nuova coscienza che si trovava spalmata sulla pelle. Non aveva detto una parola, mentre lui si dava da fare. 

Se avesse parlato, avrebbe urlato. Le sue premure le davano fastidio. Se avesse potuto, si sarebbe nascosta sotto il letto, dentro un armadio. 

Lasciami in pace. 

Come tutto appariva ormai lontano da lei, estraneo: le tende che aspettavano di essere lavate, gli strofinacci ammucchiati sul tavolo, le lenzuola stese che reclamavano di essere raccolte, piegate, stirate, tramite gesti che qualcuno, lui o lei, avrebbe compiuto per ricomporre l’ordine delle stanze. Era quello che avevano sempre fatto, disperdere energie e calore, nell’attesa che il sonno rinnovasse entrambe, giorno dopo giorno. 



L’ultima volta è stato in cucina. Lei aveva bevuto un caffè amaro con ghiaccio, più ghiaccio che caffè, in una tazza troppo grande, con le reni appoggiate al tavolo. Mara era così, fuori misura – e così sottile. Si annodava per un nonnulla e a districarla gli ci volevano giorni interi, allora lui prestava la massima attenzione per far tornare ogni fibra al suo posto, dentro di sé pensando che fosse quella la forma speciale che era riuscito a dare al suo affetto. Lei lo prendeva in giro, rideva, e intanto metteva disordine nei cassetti. Gli ripeteva che era lento, che mai nessuno, prima, ci aveva messo così tanto. Lui lo prendeva come un complimento. 

Dopotutto, è un uomo di metodo. Gli piacciono i protocolli, le linee guida. Immagina lo sforzo muscolare che deve richiedere la costituzione di uno schema: tutto quell’arginare, quell’incanalare. Fallire e riprovare. Lo considera un lavoro da pionieri. Lui, purtroppo, non possiede questo dono, però è un bravo esecutore. Uno dei migliori. Non gli piacciono le cose rabberciate, le pieghe. Di cui lei, invece, era piena. 



Il suo tè è finito da un pezzo, dentro la tazza si agita una mosca. Tenta di risalire lungo la china di ceramica, tuttavia la presa le sfugge, riprecipita sul fondo. S’involtola nei residui di zucchero. Poi ricomincia. Ha l’ostinazione dei matti, pensa lui, ha l’ostinazione che ha lui mentre estrae dalla tasca della giacca il foglio piegato in quattro che ha trovato un mese fa sotto il vaso dell’orchidea, quella che è miracolosamente resuscitata dopo una stagione senza fioritura. 

Mara gli scrive che ha comprato un biglietto aereo, che ha guadagnato abbastanza per potersi permettere un volo e una dignitosa camera d’albergo; che probabilmente trascorrerà le prime settimane senza fare niente, assolutamente niente, poi comincerà a cercarsi un lavoro, qualcosa di semplice, così imparerà la lingua; non ci metterà molto, è portata per le lingue e un po’ di francese già lo mastica, si tratta solo di farci l’orecchio. E poi, chissà. Gli augura tanta fortuna, alla fine, tanta fortuna, perché se la merita. La sua firma, l’unica cosa sciatta in una lettera scritta con grafia chiara. 

All’inizio aveva ancora abbastanza fiducia per nutrire la presunzione che l’avrebbe chiamato appena atterrata, con la voce impaurita, quella voce un po’ nasale, non proprio gradevole. L’avrebbe usata per dirgli che forse aveva commesso una pazzia e lui avrebbe provato una tenerezza istantanea. Allora, pentita, gli avrebbe fatto sapere quando sarebbe tornata, dopo un mese, sei mesi, un anno; non importa, lui l’avrebbe aspettata, pazientemente. 

Oppure, meglio ancora, gli avrebbe chiesto di raggiungerla. Forse allora sarebbe stata lei a doverlo aspettare, forse lui non sarebbe partito affatto e avrebbe riconosciuto la stringente necessità della partenza di Mara, vi avrebbe visto una traccia di fatalismo a cui si sarebbe arreso, col cuore quieto, la mente lucida. Sì, probabilmente sarebbe andata proprio così, se solo lei avesse mostrato un po’ di pietà. Tutti quei progetti che aveva avuto la cattiveria, o l’ingenuità, di raccontargli: perché? Perché anticipargli un futuro da cui lui sarebbe stato escluso? 

Questo pensa, senza trovare risposta, sotto il sole meridiano, mentre il caldo gli ha appiccicato la camicia alla schiena e i calcoli sessagesimali sono terminati e l’inizio del turno lo fa alzare dalla sedia. 






Aurora Dell’Oro (1990) ha avuto buone maestre e ora insegna Italiano e Latino nelle scuole superiori. Alcuni suoi racconti sono apparsi, o appariranno, su Malgrado le mosche, inutile e L’Inquieto. Nella primavera del 2021 ha fondato, insieme a Livia Del Gaudio, In Allarmata Radura.

illustrazione Vischiosità - Aurora Dell'Oro - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Vischiosità”, un racconto di Aurora Dell’Oro per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni