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Annette (estratto)

(Estratto dal romanzo “Annette” di Marco Malvestio, capitolo 7, parte prima, pubblicato da Wojtek Edizioni. Per ulteriori informazioni sul libro, visita il sito dell’editore qui.)



Parlare del sesso è un’impresa quasi impossibile; mentre a parlare d’amore, alla fin fine, ce la si cava, perché è proprio in quello che l’amore consiste (e dunque a maggior ragione perdonate la mia verbosità), parlare del sesso vuol dire parlare di qualcosa che non solo trascura, ma che rifiuta il linguaggio. Che il nostro inconscio abbia sviluppato, per nominare il sesso, un reticolato di metafore quasi impenetrabile anche a più di un secolo di psicanalisi è un segno eloquente di una certa reticenza dell’argomento a farsi discutere pianamente. Parlare del porno, allora, rischia di essere un po’ frustrante, e di ridursi a un discorso intorno alle scenografie piuttosto che su quanto avviene in scena – a proposito di cui, invece, non si è capaci di dire nulla. Di qui il grosso peso che hanno le scenografie in queste pagine, nella speranza però che la cosa non si fermi lì. In linea generale, chi scrive di porno lo fa solo per discutere gli effetti dello stesso, positivi o negativi, o le circostanze in cui viene prodotto, senza mai discutere la sua sostanza estetica, il valore della sua messa in scena, complice il fatto che a parlare seriamente di porno sono quasi solo i suoi detrattori.

Ecco, in questa difficoltà a parlarne, però, spero di riuscire a evitare almeno il tono di supercilioso e distaccato imbarazzo con cui scrivono molti commentatori, probabilmente emuli del saggetto di David Foster Wallace sulla premiazione degli avn Awards del 1998 (“Il figlio grosso e rosso”, in Considera l’aragosta). Prima si diceva che niente invecchia velocemente come la pornografia, ma occorre correggere il tiro: il cattivo giornalismo invecchia anche peggio. Il pezzo di Foster Wallace è stato scritto vent’anni fa, ma potrebbero essere sessanta, come ci ricordano osservazioni di rara superficialità ermeneutica come quella per cui i film hardcore “non sono per uomini che vogliono eccitarsi o magari masturbarsi. Sono per uomini che hanno problemi con le donne e vogliono vederle umiliate”. Qualsiasi cosa accada, preferisco annoiarvi a morte piuttosto che cercare di sedurvi con sprazzi di umorismo universitario per cui il gonzo sarebbe “un incrocio fra un documentario di mtv e il pannello dell’Inferno del Giardino delle Delizie di Bosch”: non sto facendo un safari tra gente raccapricciante, sto parlando della mia vita. Non abbiamo bisogno di dimostrarci niente che non sia anche argomentabile, voi e io, e l’esperienza insegna che se c’è un ambito in cui non è il caso di giocare a chi ce l’ha più lungo, quello è proprio il porno.

Io, semmai, così come Nabokov con Lolita ha scritto un libro violento sulla violenza (la definizione è di Martin Amis, un altro che, incidentalmente, non se la cava benissimo a parlare di pornografia) – io, dicevo, scriverò un romanzo (a tratti) pornografico sul porno. Un romanzo, cioè, dove si cerchi di esaurire un argomento e lo si faccia senza paura di appropriarsi, a volte, del suo linguaggio, ma anche, se si vuole, senza l’esigenza di sovra-interpretare, magari col secondo fine di scandalizzare. Non troverete qui dunque gli spericolati e raggelanti paralleli che Carrère traccia ne Il regno tra un video porno e la vita di San Paolo; né la rarefatta e distaccata pronunzia, o peggio il compiaciuto teppismo, di tanti colleghi che quando scrivono di porno non si capisce bene con chi ce l’hanno, ma l’importante è che il lettore o si vergogni o si impressioni (a loro verrebbe voglia di rispondere quello che dice Rocco Siffredi al pubblico nell’intro dei suoi video: “Come on! Come to have fun!”).

Certo, è vero che in queste pagine ho elucubrato a sufficienza su pornografia e desiderio, desiderio e amore, amore e autenticità, autenticità e arte, e così via, ma non sono forse queste cose tutte strettamente collegate? Non dico che non si debba ragionare, dico che occorre rimanere sul pezzo, senza usare il pezzo suddetto come pretesto o esibizione. Mettiamola così: in Sade, come in generale nei libertini francesi, la pornografia è ampiamente utilizzata per veicolare contenuti filosofici; ora, così come è chiaro che è idiota leggere Sade solo per le orge, è altrettanto idiota leggerlo solo per la filosofia.

In qualche momento della mia adolescenza, durante la quale ero preda di un desiderio sessuale praticamente inestinguibile, come tendo a immaginare sia per tutti, senza che questo sforzo immaginativo smorzi il mio stupore, soprattutto se confrontato col languore che così spesso ormai comincia a prendermi a proposito di questioni di intimità erotica – in alcuni momenti di quella lunghissima e lancinante disperazione inestinguibile, alimentata da pensieri impudichi incessanti su compagne di scuola, amiche, conoscenti, madri di amici, commesse, professoresse, e meno frequentemente qualche pornostar, visto che quelle, potendole vedere, non mi occorreva immaginarle (disperazione tale che, per avere qualcosa su cui tornare anche quando non avevo accesso al computer, avevo cominciato a leggere racconti erotici che reperivo su Internet e che, a proposito di catalogo e collezione, raccoglievo in file word e stampavo, per nasconderli tra i non troppi libri di camera mia) – mi era preso il pensiero che mi sarebbe anche piaciuto fare sesso con Annette, la stessa Annette che vedevo sullo schermo del mio computer in decine e decine di tab aperti per le lunghe ore in cui accarezzavo la mia furiosa erezione per ritardare il momento dell’orgasmo e del ritorno alla realtà; e non era un pensiero così assurdo, visto e considerato che io avrò avuto sedici o diciassette anni e lei, nei video che guardavo, ne aveva invece diciotto o diciannove. E tuttavia, come ho imparato quasi subito a tracciare una linea molto netta tra quello che mi andava di fare con un’altra persona e quello su cui mi andava di fantasticare, rendendomi conto che, in altre parole, il sesso che guardavo nel porno era qualcosa di irrealistico, che non era opportuno replicare, come uno sport estremo o un’acrobazia spettacolare, così mi è stato subito chiaro che Annette, in quanto Annette, apparteneva a un altro reame di esistenza rispetto al mio; che le sue capacità trascendevano qualsiasi abilità sarei mai riuscito a sfoderare, e che non sarei stato degno della sua presenza come attore, ma solo come spettatore. A dispetto dell’onnipresenza delle mie erezioni, il pensiero di recuperare l’agentività che appaltavo a Manuel Ferrara o a Brandon Iron per esercitarla in prima persona mi raggelava come un sacrilegio.

Di solito, oggigiorno, mi masturbo la mattina, appena sveglio, in bagno o direttamente a letto; posso accedere a Pornhub o XVideos comodamente dal telefono, e dopo qualche minuto di browsing ho già individuato cosa mi interessa. Più raramente uso solo la mia fantasia. Un paio di volte a settimana, invece, mi concedo sessioni masturbatorie più lunghe, a cui dedico almeno un’oretta – il tempo necessario, cioè, a raccogliere il materiale necessario sulle varie piattaforme, tra nuove uscite e vecchie glorie, e a visionarlo, massaggiandomi senza troppa foga per evitarmi di venire, e anzi il più delle volte senza neppure una vera erezione. Il lavoro che svolgo in Marsilio (che sì, ripetiamolo, è uno stage; e so di essere troppo vecchio per uno stage, a quasi trent’anni, ma mi sono iscritto a Economia solo dopo la triennale di Lettere), mi permette di avere qualche pomeriggio da passare a casa e da dedicare a questa attività, che definirei di ricerca e di accrescimento personale. L’acquisto di una smart tv, dopo che per anni non ho posseduto un televisore, mi permette di ampliare ulteriormente gli schermi su cui questa ricerca viene proiettata, benché il timore di spaventare i vicini sia sempre in agguato.

E Annette? Che posto occupa Annette nella mia vita, oggi? Raramente la cerco sui motori di ricerca, sapendo che non troverei che filmati sgranati e ripetitivi, perché, non essendo più attiva e non avendo una propria pagina, Annette è sfavorita dall’algoritmo. La mia collezione, tuttavia (seicentoquaranta foto, duecentonove gif, sessantadue video), riposa al sicuro nei miei faldoni digitali, opportunamente salvati anche su due dischi esterni; e sapere che è lì mi offre una consolazione che faticherei a descrivere a parole. Mentre le circostanze della mia vita procedono insignificanti e incontrollabili, so che a pochi clic mi aspetta, se lo desidero, Annette, pronta a esibirsi per me incarnando di nuovo quell’ideale di perfezione quale mi si è sempre manifestata. Se mi masturbo ancora guardando i suoi video è per non mancarle di rispetto: ma all’eccitazione si è ormai sostituita l’adorazione.






Marco Malvestio è nato nel 1991, e lavora all’Università di Padova. “Annette” è il suo primo romanzo.