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illustrazione I martedì sera che sognate - Chiara Archiapatti - SPLIT - Pidgin Edizioni

I martedì sera che sognate

La sua voce fendeva la massa densa del frastuono assordante. Lei se ne stava lì dove la musica si trasforma in accompagnatrice di basso profilo, una scusa utile per assecondare i propri istinti animali e addormentare (il più profondamente possibile) la materia grigia.

Dominava la massa sottostante a colpi d’indifferenza mascherata da puro fervore, da perfetta idoneità al contesto.

Nessuno l’avrebbe pensata distante, nessuno se ne sarebbe accorto.

Il top verde di pizzo, audace al punto giusto, le lasciava l’addome scoperto e le dava un’aria di superiorità, di chi conosce i canoni e sa anche come rientrarvi egregiamente.

I capelli a caschetto erano un giusto compromesso tra un’anima vintage (tutta copertine patinate e pochi libri di storia) e una rincorsa alla modernità, quasi presuntuosa nel suo nascondersi poco efficacemente.

I jeans neri, destinati a coprire l’ombelico, avevano deciso (forse volontariamente, forse costretti dall’indossatrice) di trasgredire e sfoderarlo a pieno, in combo con il piercing e un po’ di pelle in eccesso che si riversava sul bordo.

Era in piedi sul suo piedistallo accanto al Dj e alcuni ‘affezionati’, i soliti che per la foga d’apparire diventano più d’intralcio che di compagnia.

Sfogliava incessantemente lo schermo con l’indolenza di chi vorrebbe avere sotto gli occhi qualcosa ma non ce l’ha e sbuffa, si lamenta, quasi piange senza però aver voglia di agire davvero.

Con l’altra mano teneva il microfono pronto all’occorrenza, solo nel caso in cui si fosse ricordata che quella massa di scimpanzé ‘danzati’ dipendeva per buona parte da lei.

A intervalli per nulla regolari lo avvicinava alla bocca e ripeteva le solite formule, i pochi e noiosissimi incantesimi per inebriare gli inebriati, per accendere gli accesi, per eccitare gli eccitati.

Le bastava qualche urlo, una frase studiata a puntino per risultare sregolata, e ogni tanto dei frammenti di canzone per concedersi di sorpassare per brevi istanti la noia con qualcosa che le piacesse davvero fare.

Si notava anche guardandola, che dilettarsi in note alte era lo spiraglio per la salvezza, come un distacco da quella gente in fermento che non aveva alcuna intenzione d’ascoltarla, ma si limitava a seguirla.

Urlavano in coda ai suoi urli, alzavano le mani a suo ordine, obbedivano alle sue condizioni perché un capo che inciti a liberarsi di sé è sempre ben voluto.

Lei li conosceva, li sapeva dividere in categorie nonostante ormai non badasse più ai loro volti, nonostante avesse smesso d’interessarsi al numero di veterani e di nuovi arrivati.

Lei era lontana ed esercitava la sua lontananza attraverso la superiorità, con la spocchia e noncuranza di chi conosce le regole abbastanza da rispettarle con una meticolosità che può solo annoiare, con una perfezione che è solo simbolo di distacco.

Il tempo alimenta quanto logora, e dopo anni di strenuo alimentare era da un po’ subentrato il logoramento.

La passione era svanita a braccetto con il divertimento e ora le era rimasto solo il lavoro, il mero senso del dovere.

Il fuoco e la frenesia di nutrire le fiamme che sputava fuori a ogni parola , i tentativi di incendiare quello che la circondava erano ormai routine, nulla di entusiasmante, niente di che.

In compenso, però, era diventata un’attrice formidabile.

Riusciva a simulare il caro vecchio fuoco senza parteciparvi.

Ogni volta che tendeva il microfono alle labbra la voce usciva limpida, sempre la stessa, quasi avesse imparato a gettarsi addosso la benzina da sola perché ormai più nessuno lo faceva per lei.

Quegli scimpanzé credevano a ogni “Voglio vedervi tutti con le mani al cielo! TUTTI!!” o “Sono questi i martedì sera che sognate! Su i bicchieri giù i pensieri! SENZA REGOLE!!!” come fossero davvero suoi, come se fossero tutti ciechi.

E lo erano, effettivamente.

Lei sapeva di non correre alcun rischio, perché a nessuno mai era interessato osservarla, o scorgere l’anima che trasudava dal suo viso.

Forse l’avevano guardata, anzi sicuramente, ma focalizzavano l’attenzione su altri pregi che il top verde non esitava a sfoderare.

Quella gente fin troppo libera, i colleghi intenti anche loro alla finzione o all’incendio (dipendeva tutto dalla durata dell’impiego) non la osservavano, né mai l’avevano fatto.

Allora lei per punirli, per fargli pagare quella sfacciata e perenne distrazione, aveva buttato l’acqua al suo fuoco e s’era spenta.

Ora la sua anima si nascondeva, grigia e rannicchiata, dietro all’ombelico esposto al vento, dietro al suo taglio aspirante vintage, allo schermo che continuava a sfogliare, dietro agli urli, alle formule magiche e all’eccitazione di plastica.

Ma se per caso qualcuno distrattamente, intento a liberarsi del proprio Io tra un ballo scoordinato e le mani al cielo, si fosse soffermato sui suoi occhi, oltre al trucco perfetto per il contesto forse l’avrebbe anche vista piangere.





Nata e residente a Roma, Chiara Archiapatti ha quasi diciannove anni e studia Lettere Moderne alla Sapienza. Scrive perché non ha altri modi per esprimersi, legge perché non ha altri modi per sentirsi compresa.

illustrazione I martedì sera che sognate - Chiara Archiapatti - SPLIT - Pidgin Edizioni
“I martedì sera che sognate”, un racconto di Chiara Archiapatti per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni