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illustrazione Il Camaleonte - Beatrice La Tella

Il Camaleonte

Il Camaleonte e io eravamo amici, una volta.


Eravamo quel tipo di amici che si fiancheggia in ogni occasione, soprattutto quando meno lo meritavamo, quel tipo di amici che anche davanti all’evidenza del torto cerca di riabilitare la posizione dell’altro agli occhi del mondo. Ci amavamo con tutti i nostri difetti più detestabili, anzi forse soprattutto per quelli. Quel tipo di amici.


Una sera decidemmo di affittare un film e vederlo insieme, stravaccati sul divano della mia mansarda. Avevamo diciassette anni e la parola streaming per noi non aveva alcun significato. Lui sarebbe passato dalla videoteca per poi fare la sua entrata trionfale in casa mia verso le sei. Era febbraio, fuori pioveva e l’odore di asfalto bagnato mi invadeva le narici anche se non avevo messo piede fuori dalla porta. Aspettavo.

Il Camaleonte aveva cambiato aspetto infinite volte e io ero sempre stata lì, ad appoggiare ogni sua trasformazione, ad applaudirlo come una bambina. Era il mio spettacolo pirotecnico privato. Il mondo restava interdetto dal frammentarsi della sua personalità e dalle metamorfosi radicali del suo corpo. Io sorridevo compiaciuta, custode ed erede universale della sostanza intima di una persona al di fuori di me. Quanti possono dire di aver serbato qualcun altro dentro oltre se stessi? Io vi giuro che potevo affermarlo senza esagerare. Ero sempre stata capace di intravedere sotto ogni camuffamento la sua forma originale, la sua pura e unica segretezza, tutto ciò che agli altri non poteva che sfuggire.

Non sapevo se quella sera mi sarebbe apparso con un nuovo aspetto o con l’ultimo che gli avevo visto sfoggiare e la consueta disinvoltura. Qualcosa di indefinibile mi attirava verso la prima ipotesi. Il mutare del Camaleonte era come il rimescolarsi della marea e, quando sei in grado di starla a sentire, la marea ti lascia indizi sulla sua prossima direzione. Curiosa ma ancora calma, decisi di impiegare il tempo immersa nel primo fumetto che mi capitò sotto tiro. Più lui tardava, più ero certa che sarebbe spuntato con l’ennesima nuova pelle. Le ore passavano, gli albi si accumulavano sul comodino e io iniziavo a sentire gli occhi stanchi. A tenermi sveglia non era più la storia di cui leggevo ma un lieve formicolio alla base del collo, che sembrava attraversato da scintille di elettricità statica. Senza neanche accorgermene portai la mano alla nuca e cominciai a grattarmi.

Ormai mi aspettavo un messaggio in cui avvisava che non sarebbe potuto venire, che aveva avuto un contrattempo, che era scivolato, aveva battuto la testa ed era morto, quando suonò il campanello.


Entrò trafelato e fremente, il cappuccio sollevato, la giacca fradicia. Notai che non aveva acceso la luce delle scale e si manteneva ben nascosto nell’oscurità. “Esibizionista,” pensai. In mano reggeva il dvd e sottobraccio un pacco di cartone con un ideogramma cinese stampato in rosso.

«Per farmi perdonare,» spiegò.

«Figurati. Adesso fatti vedere, però.» Lo dissi con una punta di impazienza. Qualcosa aveva fatto scattare in me un senso di allerta, come di minaccia imminente. Ero la cassa di risonanza di una sensazione sinistra che paralizzava sul posto ma allo stesso tempo vibrava come un gong nel mio sistema circolatorio. Oggi forse la definirei attacco di panico, ma non potrei giurarci.

«Sai, sono mesi che lavoro a questo nuovo aspetto,» disse facendo un passo indietro, verso il buio.

«Mesi? Non mi ero accorta di nulla.» La mia voce era esitante, quasi spaurita.

Mi detestai.

«Beh, questa volta ho dovuto fare un lavoro psicologico incredibile, mai fatto un tale sforzo mentale in vita mia, te lo garantisco. Ho proprio dovuto fare violenza alla mia testa. Non so se capisci cosa intendo, immagino di no, sei sempre così stabile, tu. Così tranquilla. Ad ogni modo è stata una faticaccia, anche se per lo più si è svolta nel mio cervello. La parte fisica è solo una conseguenza, vedrai. Ma adoro il risultato, sto addirittura sfiorando l’idea di rimanere così per sempre.»

Era una frase che avevo già sentito, ma quella sera fui turbata dal tono con cui il Camaleonte l’aveva pronunciata. Sembrava più serio che mai, eppure la voce risultava allo stesso tempo canzonatoria. Interdetta e in preda a un’inquietudine crescente che mi spezzava il fiato, lo trascinai alla luce e gli tolsi il cappuccio.


Non svenni per poco, quando vidi un completo sconosciuto al centro della mia mansarda.


Impiegai qualche secondo a tornare in me e ricordare che, per l’ennesima volta, avevo davanti il Camaleonte, anche se questa volta aveva evidentemente deciso di strafare. Le gambe ricurve e il petto in fuori – come a vantare dei muscoli che non c’erano –, le braccia magre abbandonate lungo i fianchi, ma le dita delle mani flesse, lo rendevano grottesco. Ma la cosa più assurda era il viso, oh, il viso! Ricordava da una parte le maschere satiriche del teatro antico, dall’altra il volto di una diva in decadenza che si fosse tirata su le guance col collagene, immobilizzandosi in un sorriso eterno e ridicolo. Aveva un aspetto beffardo e appariva sicuro di sé come mai era stato. Non avevo sbagliato nel percepire un tono derisorio nella sua voce.

Non riuscivo a riconoscere i suoi contorni, come sempre ero riuscita a fare. Non potevo vederlo, nonostante si stagliasse proprio lì, davanti a me e questo mi spiazzava, aveva aperto una voragine nelle mie certezze – forse nell’unica certezza che possedessi. Quel baratro si ingrandiva a una velocità vertiginosa e cercava di risucchiarmi al suo interno; aveva la forza gravitazionale famelica di un buco nero.


«Allora, che ne pensi?» Me lo chiese con ostentata indifferenza, una domanda formale la cui risposta non lo interessava affatto – Bella giornata vero? –. Come se fosse sempre stato così e così dovesse essere per sempre.

Il suo tono in salita, appena interrogativo, mi riscosse dal contorcersi dei miei pensieri. Preferii temporeggiare: «Lo sai che non riesco mai a giudicare nell’immediato. Vediamo il film e ti dico meglio.» Mi sforzai addirittura di sorridere, sentendomi un’idiota senza sapere perché.

Mangiammo in fretta gli involtini primavera e il gelato fritto – quanto fu inquietante vederlo mangiare senza cambiare quell’espressione da teatro plautino, bere sorridendo ancora e masticare con gli angoli della bocca ghignanti, mentre briciole di cibo e salsa restavano incastrate nella sua smorfia orrenda! – e infilammo il dvd nel lettore sibilante. Fissavo il suo volto, illuminato nel buio dalla luce intermittente dello schermo e a ogni lampo mi appariva sempre più odioso, malgrado mi sforzassi di respingere la mia stessa ostilità. Dov’era l’amico che per anni aveva abitato il lato est del divano consunto? Tutto quello che vedevo era un sorriso farsesco, reso più ampio dal disprezzo verso tutto ciò che non era lui. Mi accorsi che mi aveva tradito. Peggio, mi accorsi che si era tradito, tutto ciò che era stato, tutto ciò che aveva voluto diventare. I suoi occhi nuovi mi svilivano, disdegnavano. Il Camaleonte mi relegava in fondo alla lista degli esseri degni di respirare, schernendomi. E pensare a quante volte lo avevamo schernito insieme, il resto del mondo.


Mi accorsi di non riuscire a tollerare il suo nuovo aspetto.

Sullo schermo un tipo chiedeva all’altro di colpirlo più forte che poteva. La mia mano si mosse insieme alla sua, il mio pugno cozzò contro la mascella del Camaleonte mentre il suo colpiva il collo dell’improvvisato avversario.

Sullo schermo, come nella mansarda, cominciò, furiosa, la lotta.


A pugni, calci, graffi e morsi cercavo di distruggere quella faccia che al Camaleonte aveva richiesto tanto tempo. Volevo oltrepassare il suo corpo per arrivare dentro la sua testa, quella che era stato così difficile e stancante piegare. Volevo aprirgli il cervello e guardarci dentro, devastarlo come fosse un museo da saccheggiare e lasciare in fiamme. Lo colpivo senza sosta mentre lui cercava a stento di difendersi, l’espressione immutata, il volto esasperante contratto nel suo ghigno perenne. La tv ci mostrava esplosioni, sparatorie e risse furibonde. Smisi di pestare selvaggiamente il Camaleonte solo alla fine del film. Il suo volto era distrutto ma l’espressione, sempre più folle, quella non ero riuscita a cancellarla. Non capivo nemmeno se fosse morto o se respirasse ancora ma lessi con chiarezza cristallina, nitida, la sua beffarda soddisfazione.

Mentre veniva massacrato, vinceva. Mentre, forse, moriva, trionfava.

Ero a cavalcioni su di lui, la faccia completamente schizzata di sangue, quando cominciarono i titoli di coda.


Mi accorsi di non riuscire a tollerare il suo nuovo aspetto.

Sullo schermo un tipo chiedeva all’altro di colpirlo più forte che poteva. Immobili, io e una persona che avevo sempre creduto di saper riconoscere, seguivamo il film senza alcun commento, senza alcun cenno o sguardo d’intesa. La tv ci mostrava esplosioni, sparatorie e risse furibonde.

Eravamo ancora fermi, gelidi come sculture di marmo, quando cominciarono i titoli di coda.


A film finito accompagnai il Camaleonte all’uscita. Rimasi in silenzio, come se parlare significasse cicatrizzare del tutto il nuovo stato di cose.

«Allora, che te ne pare?» Di nuovo quella voce di sufficienza, il tono di chi parla per farti un favore, ingoiando le parole a metà per non sprecarle con te.

«Ci ho pensato e no, non mi piace per niente,» risposi e la mia era una sentenza definitiva, la stessa che voleva lui. «Se vuoi un consiglio, torna con una faccia nuova, o una vecchia, insomma una realistica. O non tornare affatto.»

Non replicò, ma mi parve di vedere l’angolo sinistro della sua bocca oscillare per un istante, un guizzo muscolare che non seppi interpretare e che con ogni probabilità era del tutto involontario, una scossa di assestamento.

Chiusi la porta accostandola piano, come per non svegliare un dolore dormiente. Poi rimasi in ascolto dei suoi passi che scendevano le scale. Ripresi a respirare solo quando sentii il portone automatico del condominio serrarsi e il pianerottolo che taceva.


Il Camaleonte e io eravamo amici, una volta. Sono passati molti anni da quella notte nella mia mansarda. Ogni tanto, quando cammino nelle stesse strade che eravamo soliti percorrere insieme, quando mi ritrovo per lavoro nel suo quartiere o nel nostro caffè preferito, la mia testa si fa un cinema privato e proietta quella lotta mai accaduta. In mezzo alla folla, lui non mi ha mai cercata e io non l’ho più riconosciuto.





Beatrice La Tella è nata a Messina nel 1990. Dopo la laurea in filosofia si è avvicinata all’editoria. Collabora con alcune riviste tra cui Marvin e Altri Animali (che ha ospitato il suo primo racconto). Attualmente vive a Roma ma sente spesso nostalgia dello Ionio.

illustrazione Il Camaleonte - Beatrice La Tella
“Il Camaleonte”, un racconto di Beatrice La Tella per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni