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La piaga dei gabbiani - Stephen Gregory

La piaga dei gabbiani (estratto)

Primo capitolo del romanzo “La piaga dei gabbiani” di Stephen Gregory, pubblicato da Wojtek Edizioni. Traduzione di Monica Pezzella.



Novembre in Snowdonia. Io sono nella roulotte, su alla cava.

I gabbiani sembrano impazziti, strillano e schiaffeggiano le finestre con le ali. Sento il rumore dei loro piedi che strisciano sul tetto quando atterranno per poi rialzarsi in volo.

Appena apro la porta ed esco a lanciare una manciata di briciole e qualche biscotto, si azzuffano e si ingozzano come se stessero morendo di fame, poi scappano frullando, in una nube bianca, nera e grigia. Chiudo la porta e raggiungo il margine estremo della cava.

Le 8 del mattino, si gela. Nell’aria spira una pioggia fine e argentata.

Il moncherino mi fa male. Il dottore ha detto che in inverno mi avrebbe dato fastidio. Ha detto che, con il sopraggiungere dei giorni più freddi, avrei sentito il fantasma del dito mancante. Quel fantasma già mi perseguita, una dolorosa pulsazione dove prima c’era il dito. Avvolgo entrambe le mani intorno alla tazza di tè e sbircio oltre il ciglio della cava.

La mia cava. Ancora non mi pare vero. Appartiene a me, tutta, con tutto ciò che contiene. I gabbiani, sono tutti miei.

Dopo avermi svegliato e avermi costretto a uscire dalla roulotte, gli uccelli si calmano. E, quando stringo la mano intorno alla tazza calda, il dolore si placa. Dall’orlo della cava mi sporgo a guardare lo stagno, una trentina di metri sotto di me. L’acqua è sempre diversa. Cambia a seconda dell’ora e della luce che si riflette sulla superficie. Al mattino, prima che il sole spunti dal versante delle colline, è perfettamente nera, perfettamente liscia, e ci si può guardare attraverso fin quasi al fondo.

La macchina di papà. Riesco a distinguerne la sagoma curva e arrotondata, che giace lì nello stagno come una balena morta. Dall’oscurità, i fari mi osservano.

Mette i brividi. Incredibile, non molto tempo fa era agosto, l’estate, la fiera in paese. Novembre… quella parola mi manda un brivido nel midollo.

Distolgo lo sguardo dagli occhi rotondi sul fondo dello stagno e ispeziono la cava. È disseminata dei rifiuti che la gente porta da Caernarfon: c’è una specie di slavina di immondizia nel punto in cui hanno lanciato direttamente dall’auto buste e scatoloni e attrezzi ormai rotti, indesiderati pezzetti delle loro case, dei loro giardini, delle loro vite. Un rigetto di scarti, bloccato in un ingorgo tra le rocce sulla via dello stagno…

Strana eredità. Posseggo un buco profondo trenta metri, e tutta l’aria e l’acqua al suo interno. Posseggo tutte le cose rotte e inutili che vi sono state gettate. E centinaia di gabbiani, che accorrono alla cava per raccogliere gli avanzi e svegliarmi al mattino per fare colazione.

Il mio tè si sta freddando. Verso i fondi per terra. Alzo gli occhi verso la sommità della collina, la recinzione di ferro e filo spinato arrugginito che dovrebbe servire a scoraggiare le pecore e gli escursionisti curiosi dall’avvicinarsi troppo. Poi guardo il paese giù in basso, miglia e miglia sotto di me: il baluginio dell’ardesia sui tetti, il grigio barlume delle torri del castello dietro la cortina di pioggia.

Freddo. Dopo aver dato un’ultima occhiata allo stagno, volto le spalle alla cava. Un soffio di vento solleva un foglio di giornale. Quello svolazza per aria, spiegandosi e rigirandosi su se stesso, e un gruppetto di gabbiani, scambiando il bianco sbatacchiare per un gabbiano di un’altra cava sconfinato nel loro territorio, plana sul burrone. Poi però gli uccelli virano e si allontanano, e il foglio di giornale si posa sull’acqua. Si spiega, scurisce, affonda. La sagoma dell’automobile si offusca e scompare.

Me ne torno alla roulotte. La corrente d’aria che si genera quando apro la porta attira qualche gabbiano, che atterra sul tetto e aspetta. Appena mi spingo oltre la soglia loro cercano di entrare. Segue un momento di follia, in una rissa d’ali e piedi gommosi e colpi di becco alle mie spalle mentre i gabbiani cercano di spingersi dentro prima di me…

«No, tu no! E neanche tu! E neanche tu!».

Grido e li scaccio con le mani. Fanno schioccare i loro becchi di corno contro la mia tazza. Infine, quando si allontanano, uno solo scatta di nuovo in avanti…

«Sì, tu! Vieni dentro!».

Lo lascio entrare, infilarsi tra le mie gambe e inoltrarsi nella roulotte, quindi chiudo subito la porta.

Fuori, il baccano è un crescendo. Tutti i gabbiani della cava picchiano contro le finestre e sul tetto per entrare. Tiro le tende e mi siedo sul letto, le mani strette intorno alla tazza che si va freddando. Di minuto in minuto, il trambusto si placa, finché sul mio piccolo spazio e sul mondo esterno cala nuovamente il silenzio.

«Tu», dico all’uccello. «È tutta colpa tua». Se ne sta lì, ai piedi del mio letto, a riaccomodarsi le piume arruffate con la punta del becco. Al suono della mia voce, piega la testa su un lato e mi guarda con un occhio nero e lucente. «Sì, tu. Cosa ti fa pensare di essere diverso da tutti quegli altri?».

E tu?, sembra replicare lui. Perché saresti speciale?

Speciale proprio per niente. E senza alcuna ambizione di diventare famoso. Sono David Kewish, diciotto anni. Ho fatto cinque anni in una squallida scuoletta privata a Bangor, ma alla fine i miei voti erano talmente scarsi che mi sono tolto subito dalla testa di poter accedere anche uno solo dei college dell’intero Paese.

David Kewish, seduto nella sua roulotte in una cava del Galles, con il suo gabbiano. L’uccello mi soffia il suo alito in piena faccia. Adoro quest’odore. La moquette sa di umido, e così il letto sgualcito in cui ho dormito. Vedo il mio riflesso nello specchio dell’armadio. Strano – anche quando sono tutto arruffato e assonnato ho un bell’aspetto, un ragazzo robusto con un bel colorito e folti capelli neri. Niente di speciale.

È stata un’estate strana. Sono accadute cose sconvolgenti. Per questo sono venuto alla cava, per dimenticare tutto. Chiacchiere e mezze parole e dicerie sul mio conto. E su quello dell’uccello. Sull’uccello e me.

Un’estate strana. Qualcuno si è fatto molto male. Una o due persone? Tre? Ho perso il conto.





L’opera, l’autore

David Kewish è un goffo diciottenne che vive con il compagno della madre a Caernarfon, nel nord del Galles, una cittadina sorta intorno all’omonimo borgo medievale, dominato dal Castello e dalle mura di XIII secolo. La vita di David è stata segnata da dolori precoci, eppure il protagonista, alle soglie dell’età adulta, sente di essere circondato da un mondo di possibilità. Il giorno del suo diciottesimo compleanno David si imbatte in un gabbiano e lo salva liberandone il becco dalla linguetta di una lattina. Questo gesto tuttavia segna per lui l’inizio di una relazione conflittuale con l’uccello e il rapporto tra i due si fa sempre più ambiguo, mentre una serie di spiacevoli incidenti, causati dai gabbiani, diffondono ansia e timore tra gli abitanti della città. I gabbiani con il loro stridio minacciano le strutture di senso che avevano fino a quel momento conferito un ordine al mondo: non esiste alcuna strategia per affrontarli, né una spiegazione del loro comportamento anomalo. Pubblicato nel 2018 dall’inglese PS Publishing, Plague of Gulls è dominato dal garrito dei gabbiani, un verso misterioso, disumano, forse soprannaturale.


Nato a Derby, Inghilterra, nel 1952, Stephen Gregory si è dedicato agli studi giuridici presso la University of London e successivamente all’insegnamento in Galles, Algeria e Sudan. Ha vissuto a Hollywood, in California, dove ha lavorato come sceneggiatore con William Friedkin alla Paramount Pictures. Nel 1987 ha vinto il Somerset Maugham Award con The Cormorant, che ha ispirato l’omonimo film con Ralph Fiennes, ed è stato tradotto in italiano da Monica e Daniela Pezzella per l’editore Elliot nel 2016.

La piaga dei gabbiani - Stephen Gregory
Primo capitolo del romanzo “La piaga dei gabbiani” di Stephen Gregory, pubblicato da Wojtek Edizioni