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Soda caustica - Chiara Cerri - SPLIT - Pidgin Edizioni

Soda caustica

Quando avevo cinque anni mi hanno dato da bere una soda caustica, corrosiva come lo stura scarichi.
Prima che l’immaginazione si infili nelle fognature delle vostre perversioni, lo dico io, così ci togliamo il pensiero: è stato un incidente.
Avevo corso. L’aria calda e il sudore mi si erano appiccicati addosso, l’entrata del bar sembrava un castello. Avevo sete.
Il barista mi ha versato un bicchiere d’acqua, tieni bella bimba. La soda caustica ha la stessa consistenza innocua dell’acqua, qualcuno del turno prima di lui l’aveva messa in una normale bottiglia (diranno poi dopo) e appoggiata dietro al bancone, senza togliere l’etichetta, senza avvertire i prossimi: è corrosivo, non dare da bere alle persone, soprattutto ai bambini.
Io ci ho lavorato nei bar, guarda, lo so bene il casino che si crea, la fretta delle cose buttate là, servire tre clienti alla volta, quella stanchezza fisica che si accumula, al cambio turno neanche ti viene voglia di salutare la gente, vuoi andartene via. Che ci vuole a scambiare soda caustica per acqua minerale. Io vi capisco tutti.
Il liquido, appena sceso nelle mie cavità ha cambiato forma, si è fatto fluorescente, la colata vischiosa ha mangiato le mie pareti. Erose. Via tutto.

Pare che io mi sia accucciata come un cane e che abbia sputato una lava di bile e sangue. Metamorfosi: mi sono trasformata in un drago sputa fuoco.
È inutile che cerchi su internet, non ci sono testimonianze, articoli di giornale, post, era la fine degli anni Ottanta. Forse solo qualcuno della mia famiglia ha conservato qualche ritaglio di giornale, che racconta la storia della bambina sputa fuoco.

Quello che è venuto dopo sono stati mesi difficili, immagino per quelli che mi stavano intorno, ma non per me. L’ospedale pediatrico è stato un bel posto, hanno i poster con topolino alle pareti, le infermiere sanno come trattare con i bambini, c’è pure un buon profumo nell’aria, di alcol e pastina in brodo, e poi c’era da fare amicizia con gli altri ustionati. In camera con me c’era un piromane, un ragazzino che in un pomeriggio uggioso ha dato fuoco alla sua cameretta. Mezza faccia corrosa.
Io però, no. Niente cicatrici.
La cosa assurda di tutta questa storia è che tutte le mie bruciature erano interne, organi raggrinziti, esofago atrofizzato. Ustioni di terzo grado, ma dentro. Quando mi sono alzata dal letto, dopo mesi, non sapevo più come si camminava: ricordo un tentativo di incedere lungo il corridoio, con quelle mie gambette secche, un piede davanti all’altro, Minnie e Pippo sbucati dai muri a fare il tifo, manco fossi stata un’eroina. Stavano per mandarmi via, senza neanche un segno sul corpo da mostrare, una cicatrice di guerra. Nulla.

La famiglia era felice più di me; io, invece, me ne sarei rimasta volentieri in ospedale, avevo le mie abitudini, come per esempio, costruire case con le ossa del pollo avanzate, usando il purè come calcestruzzo.

C’è una cosa che non ho detto: il mio esofago è rimasto leggermente ristretto in un punto, si chiama stenosi, ma dei termini medici non ce ne frega cazzo, perché in tutti questi anni ho capito una cosa: se il tuo male non si vede, non esiste.
Ogni tanto mi è capitato di raccontare questa storia, poi ho smesso. La gente ti guarda negli occhi e poi scende con quelle cazzo di pupille come fossero radar, all’altezza della gola, in cerca di segnali. Ma che guardi?
Ripeti con me. Se non si vede, non esiste. Se non si vede, non esiste.



Le cose assurde però, sono accadute dopo. Quando sono dovuta tornare a scuola. Fare le suore è come aggiungere soda caustica alla soda caustica, te ne accorgi quando hai superato i trent’anni e incroci i tuoi ex compagni di classe al supermercato, ingobbiti e con il segno della croce conficcato per bene tra le scapole e lo sterno.
Poveretti. Poveri noi.
Alle elementari ero magra, sottopeso, deperita, e in più c’era questa storia dell’esofago ristretto che mi costringeva a stare attenta a cosa e quanto masticavo.



Gnam, gnam, gnam.

Mastica, mastica, mastica.



Mastica bene che sennò ti strozzi (dicevano tutti).

Sono un po’ come Victor Mancini, solo che non ho bisogno fingere. Io soffoco sul serio. Porca puttana, mi è venuto anche da ridere quando l’ho letto. Il mio romanzo, invece, si dovrebbe intitolare “Masticare.” I cibi che sono più a rischio di rimanere incastrati sono quelli fibrosi, le carni rosse, le verdure crude, le noci. E se capita che mangio in fretta, porco cane, capita anche a me, se mi rimane lì, il boccone di cibo mangiucchiato, inculato nel bel mezzo della canala, senza andare né su né giù. Sono cazzi.
(Quella volta che, chiusa nel bagno, a casa del fidanzato: aspettami eh, che esco. Due ore.
Quella volta che, invece glielo devi spiegare, allora la gente va in panico, si preoccupa, ti vogliono portare all’ospedale. No guarda, faccio da me. Che poi scende, vedi.

I casi sono due: o scende, o risale. Di solito non muoio.

Capisci, vero, perché mastico bene? È che io col cibo ho un rapporto quasi elitario. Raffinato.)



Gnam, gnam, gnam.
Mastica, mastica, mastica.



Dicevamo, le bizzarrie. Alle elementari, ero magra, e tutte queste spiegazioni non le potevo dare, non c’era tempo per i racconti, c’era da mettersi in fila per due con quei grembiuli bianchi, fare i compitini in classe. Di solito venivo presa di mira da quelle cicciottelle (oggi fanno tutte le dietologhe), le frasi più in voga erano: “forse i suoi genitori non hanno soldi per darle da mangiare, forse non le piace mangiare.”

Ecco, quest’ultima mi faceva incazzare. Allora per far vedere che mangiare mi piaceva – e mi piaceva realmente – ho iniziato ad ingozzarmi, rischiando di strozzarmi. Quando avevo qualcuno davanti a me mangiavo voracemente, con le mani, finendo tutto quello che avevo nel piatto, leccandomi perfino le dita. Allora c’era da dire, che animale quella bimba, che maleducata.
Le cicciottelle però, non erano ancora convinte che io mangiassi, perché ero sempre secca, deperita.
Alle superiori, è accaduta un’altra cosa bizzarra. Era la fine degli anni Novanta e tutti parlavano dei disturbi alimentari, ogni tanto spuntava fuori la storia di una donna dello spettacolo che aveva buttato via il cibo per anni. In tv, sui giornali. Fuori il rospo. Così ogni volta che mi alzavo per andare in bagno, le voci erano cambiate, ora dicevano “eh vedi, va a vomitare.” Allora ho smesso di andare in bagno, mi tenevo il piscio, finche non ero libera di farlo.



Oggi quando la gente mi chiede come mai mangio così lentamente, ho la scusa perfetta. Sai, dico, fa bene alla linea.
Le riviste dicono che mangiare lentamente è una manna per la salute. Consigliano di masticare ogni boccone per almeno trenta secondi, questo pare che abbia il miracoloso effetto di toglierti la fame e quindi farti mangiare meno.

(Io guarda, se mangio la bistecca, altro che trenta, fai pure un minuto a boccone.)

Le frasi più esilaranti su questa storia le sento oggi, sono quelli che sanno, quelli che sanno tutta la faccenda e a un certo punto mi dicono “certo oh, tu c’hai tutte le fortune, così mangi e non ingrassi!”






Chiara Cerri è nata a Viareggio. Ha studiato arti visive e lavora come fotografa e insegnante di italiano per stranieri. Alcuni suoi scritti sono apparsi su Nazione Indiana, Grado Zero, ha pubblicato dei racconti brevi con Giulio Perrone Editore.

Soda caustica - Chiara Cerri - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Soda caustica”, un racconto di Chiara Cerri per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni