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illustrazione La lunga strada di sabbia (parte 1) - Francesca Coppola

La lunga strada di sabbia (parte 1)

Nell’aprile del 2020, dopo quattordici anni passati all’estero, sono tornata a vivere in Italia. Durante l’estate ho ripercorso il viaggio che Pasolini fece lungo la costa italiana da Ventimiglia a Trieste nel 1959 e per cui scrisse un reportage commissionatogli dalla rivista “Successo” che lo pubblicherà lo stesso anno con le fotografie di Paolo di Paolo. Quello che segue non è un commento al testo di Pasolini, né un reportage sull’Italia di oggi, ma una parte del racconto che ho scritto sul mio viaggio. “In realtà Pasolini cercava la felicità,” scrive Paolo Mauri nell’introduzione de La Lunga Strada di Sabbia (Guanda). “La felicità era immergersi in quelle esperienze, secondando l’estro poetico e il fluire di un eros incendiario, sempre pronto a risorgere dalle proprie ceneri.”





La lunga strada di sabbia

“Come tutti i traumi, quello di essere qui, si sta trasformando lentamente in una specie di felicità” – Pier Paolo Pasolini



Ventimiglia, giugno

La foce del fiume Roia divide Ventimiglia in due. Da un lato la città vecchia, avvolta da una foschia rosa si staglia sopra la roccia. Dall’altra i palazzi nuovi, il mercato dei fiori, lunghe strade che sembrano corsie per il vento. Ragazzi nigeriani bevono birra e ascoltano musica seduti su un muretto. Sotto di loro, dove il fiume è in secca, alcune famiglie hanno costruito delle case di fortuna con tele, cartoni, tappetini, per proteggersi dal sole e dalla pioggia.

Salgo sulla scalinata che porta alla città vecchia. L’odore del mare tra i vicoli stretti, il rumore dei piatti all’ora di cena. Sotto una luna grande come un’unghia si scorgono le case fatiscenti, arroccate una sopra l’altra come conchiglie su un relitto. Ventimiglia è povera, viva. In piazza si sentono le grida dei bambini che giocano sotto gli occhi delle madri che li controllano sedute sui gradini della chiesa. Sul lungomare parole in dialetto, francese, arabo, russo. La frontiera, come il sole, è dietro la montagna, dietro le nuvole che illuminano ancora per qualche minuto la spiaggia ormai quasi interamente in ombra.

Sopra la scalinata c’è una piccola chiesa bianca. Un tempo da qui si vedevano distese di campagne, il fiume, gli ulivi. Ora sulla pianura campeggia una Coop dove le cose costano meno che in Francia. Di fronte al supermercato le auto della polizia fermano due ragazzi senegalesi, gli chiedono i documenti. Poco dopo li portano via sull’auto e scompaiono nella notte. Vago senza meta per le strade, non voglio ancora andare a dormire. Mi fermo nell’unico posto aperto, un kebab all’angolo della piazza. Giovani arabi, turchi, marocchini, tunisini siedono ai tavolini all’aperto, mangiano, ridono, bevono coca cola. Un filo di vento precede lo sferragliare di un treno che passa senza fermarsi. Per un momento le cose sembrano di nuovo leggere, intere.



Sanremo, giugno

Cielo grigio, morto. Arrivo a Sanremo la mattina e già l’afa è soffocante. La vecchia stazione vicino al mare è abbandonata, al suo posto la città ha una nuova stazione, completamente sotterranea, scavata sotto la collina a cui si accede per un lungo e soffocante tunnel. Provo a immaginare come deve essere stata Sanremo ai tempi dell’Ariston. Il casinò, la musica, il lungomare illuminato come il set di un film, le donne eleganti che sfilano per uno sguardo. Qui un tempo soggiornavano gli zar russi in fuga dall’inverno siberiano. Ora di quell’epoca fa fede come una reliquia la cupola d’oro della chiesa ortodossa, una presenza anacronistica tra le rovine di una città dei cui diversi passati non è rimasto nulla, neanche la nostalgia.



Spotorno, giugno

Il sole sta già tramontando quando arrivo a Spotorno e qualcosa mi fa sentire a casa. Forse il portico che come una porta collega il paese al mare, o gli oleandri rosa e bianchi nei giardini di hotel che sognano con i loro nomi coste più azzurre, mari più raffinati. Nel cortile di un palazzo sotto una tettoia di legno, la banda inizia a suonare. I clienti si siedono, ridono, fumano. Una donna si alza per ballare, prende per mano la sua amica. Nel primo buio dietro le auto parcheggiate, una lampadina trema per un istante, poi si accende.



Genova, giugno

Dopo la pioggia via Venti brilla come un vetro. Cammino tra i venditori di libri, i panifici, i negozi di abbigliamento. Tra i vicoli l’odore di pesce, di spazzatura, di alcol, di fumo. Due ragazze siedono ai tavolini di un bar, una delle due beve un Aperol rosso come le sue guance. Ascolto il loro francese appuntito e aspro, sono due studentesse corse. Scendo per una strada stretta seguendo l’odore del mare tra una fila di piccoli hotel dove la gente sembra vivere più che alloggiare di passaggio, tunisini, algerini, senegalesi, ma anche siriani, indiani, libanesi. Passo accanto a piccole vetrine con le insegne gialle da dove si può telefonare in tutto il mondo. Poi di colpo il porto, allagato di sole. Un gruppo di donne africane sedute sulle banchine sembrano un giardino nei loro abiti colorati.

Corro verso le grandi navi da crociera. Non c’è nessuno, solo le ombre lunghe delle palme sul cavalcavia. Per un momento penso che potrei abbandonare tutto e imbarcarmi su uno di questi

mostri giganteschi. Ma per dove? Salgo pochi gradini e il mare mi sembra già lontanissimo. Sono a San Teodoro, più silenziosa, meno turistica, più popolare. Attraverso una finestra aperta, una donna anziana si rivolge a una giovane di passaggio, in mano le buste pesanti della spesa. “Come vivremo l’anno prossimo?” Continuo a salire per i gradini, sempre più su, tra gli aranci, tra le zone d’ombra e di luce. Genova è una città dove mi sarebbe piaciuto innamorarmi. Salgo sulla funivia che collega la parte alta della città con la parte bassa. È un attimo, la città diventa rossa, poi il sole scompare sotto la prima stella, piccola come una lanterna, ancora bassa sul mare.



Verso la Spezia

Inizia la riviera di Levante, le spiagge della mia adolescenza. Dal finestrino del treno un vecchio bagno abbandonato, un bunker dei tempi di guerra, le panchine scrostate rivolte verso il mare. I pini larghi, verdi, ancora in ombra. Costretti tra la montagna e il mare sembra di guardare attraverso un cannocchiale, e ciò che è lontano sembra vicino, e le cose vicine sembrano scomparire nel moto del treno che accelera, rallenta, si ferma e poi di nuovo vola. Il treno corre in mezzo a due binari di luce come sospeso su una corda, e sopra le colline il sentiero azzurro, e sotto le rocce il mare. Una madonna di pietra nera alta sullo scoglio con lo sguardo verso il cielo compare un secondo, prima di essere inghiottita dall’oscurità del tunnel.

Qui ho vissuto la mia prima avventura. Lui era uno studente di biologia in vacanza con altri quattro o cinque ragazzi. Si erano appena diplomati, l’anno successivo avrebbero cominciato l’università. Un pomeriggio dal cielo, in mezzo al sole, per pochi minuti caddero poche gocce d’acqua. C’era una luce bellissima, di cui ancora mi resta un ricordo perfetto, grani di nuvole bianche e rosa sospesi nel cielo, e un’aria densa come qualcosa da bere. Sedevamo sulla terrazza del caffè. Ricordo che i ragazzi erano in competizione tra di loro, ma le ragazze come me erano solo una scusa. Quello che contava era il gusto della gara, di arrivare primi. Mi godevo i momenti in cui i miei sguardi erano al centro dell’attenzione di quei cinque ragazzi, che avevano appena vent’anni e mi sembravano già degli uomini. Con quanto ardore desideravano conquistare, avrebbero spostato mari e monti per il corpo di una ragazzina che pochi giorni dopo non avrebbero neanche riconosciuto per strada. Eppure mi sembrava di amarli già tutti e cinque, lo sguardo fragile, le mani tremanti, il terrore di essere rifiutati. Era l’ultima estate prima dell’inizio dell’università. La sera tornai a casa con uno di loro, lo studente di biologia. Non ricordo sulla base di cosa feci la mia scelta, ma aveva gli occhi verdi e mi aveva regalato un

braccialetto viola che aveva comprato in Corsica. Se l’era tolto dal polso e l’aveva messo al mio. Sul divano mi chiese se avevo già fatto l’amore. Gli mentii e gli dissi di sì. La prima volta, aggiunse, lo devi fare con qualcuno che ami. Non capivo il senso di quella frase, anche a quindici anni non capivo come si potesse amare una persona senza averci prima fatto l’amore. La mattina seguente lo accompagnai alla stazione.

Tenta di sorridere, mi offre la colazione, rallenta, poi lo sguardo fugge di nuovo. Mi abbraccia prima di entrare, lontano dagli sguardi dei suoi amici. Poi tutti e cinque salgono sul treno. Mi saluta con la mano dal finestrino. Il treno parte e si infila nel tunnel nero, poi il silenzio, le cicale, il ritorno mesto a casa, e dalla finestra, un filo di vento tra i capelli, dentro quel niente improvviso, un soffio di mare.



La Spezia, luglio

Scendo dai gradini della stazione, e mi dirigo verso il primo hotel, una scritta sbiadita su un muro scrostato. Il palazzo è rosa, con i soffitti alti, gli infissi in legno, una foto ingiallita, una vecchia targa in corsivo. L’hotel è gestito famiglia cinese. È il padre a darmi le chiavi, senza sorridere. La figlia invece ha lo sguardo allegro. Mi accompagna alla mia stanza. Appena siamo sole il suo volto si apre in un sorriso che credo non abbia molta occasione di mostrarsi in questi corridoi semi abbandonati. Mi chiedo se questa ragazza esca mai dall’hotel, se quando esce deve chiedere il permesso, dire al padre dove sta andando e quando ritornerà. È felice di incontrare qualcuno, mi guarda con curiosità, mi chiede chi sono, da quale città vengo. Mi lascia un asciugamano e scompare dentro una luce verde in fondo al corridoio.

Esco dall’albergo senza una meta precisa e dopo pochi passi, in una luce morbida filtrata dalle fronde delle palme, si apre davanti ai miei occhi piazza Brin. Questa piccola piazza di fianco alla stazione il venerdì sera si trasforma in una festa. Sembra di essere a Santo Domingo, la musica dalle casse improvvisate riempie la piazza piena di uomini e donne, ragazzi, dominicani, ecuadoriani, venezuelani, alcuni seduti ai tavolini, altri in piedi di fianco a un piccolo negozio di alimentari che vende limonate. Le ragazze sono abbronzate, di una bellezza calda, le trecce lunghissime coprono le loro spalle nude. Guardano i ragazzi con malizia, sorridono, si voltano, poi i loro sguardi ritornano su di loro. Bambini con monopattini, biciclette, pattini a rotelle sfrecciano senza sosta nella piazza. D’improvviso il cielo si copre di nuvole e i bambini corrono verso le madri che già si allontanano verso casa. Una pioggia di vetro svuota le strade lasciandomi di nuovo sola.



Lerici, luglio

Arrivare a Lerici è come entrare in un museo, si ha la sensazione di dover abbassare la voce, di non voler avvicinarsi troppo, di non poter toccare niente. Cammino lungo il mare, alla ricerca di un posto dove fare il bagno. La scogliera è riservata ai proprietari di seconde case, le spiagge sono a pagamento. Mi infilo in un pezzettino di spiaggia libera, situato nel punto più scomodo e meno accessibile della baia, dove non sarei potuta entrare dato che non ero in possesso di una prenotazione, ma il bagnino chiude un occhio e mi lascia passare. Da qui vedo tutto il golfo, stupendo ma di una bellezza che sembra finta, preservata a tal punto da rimanerne uccisa. San Terenzo, è una cartolina. Bellissima, ma spenta, senza vita. Sul lungomare, a delle piccole torri di pietra sono affisse delle targhe dedicate a poeti di professione, i poeti “ufficiali” di tutto il mondo. Più che dei monumenti sembrano delle lapidi. In lontananza grandi navi da carico attraversano il mare cenere verso le gru del porto.



Forte dei Marmi, luglio

La Versilia brilla dopo la pioggia notturna. Dietro il litorale si stagliano montagne grigio ghiaccio, sotto le nuvole diventano scure, fosche, le vette appena toccate da strisce di neve azzurra. Da un lato le montagne e dall’altro, come un velo, una striscia di sabbia, appena rastrellata dai bagnini. Le ville sono circondate da alte siepi che lasciano tutto all’immaginazione. Sono vuote, sono piene queste case? Chi soggiorna qui? Sulla spiaggia, tra i grandi tendoni tesi nel vento, c’è spazio, privacy, silenzio. Tre ragazze magre, magrissime, sfilano sulla passerella, i capelli

lunghi e biondi sfiorano le natiche. Sono belle ma è una bellezza violenta, rabbiosa. Non c’è niente di dolce nei loro movimenti, nei loro corpi, come se ogni dettaglio venisse giudicato e corretto dentro gli specchi, e di naturale, di spontaneo non rimanesse nulla. Un ragazzo, il fidanzato, viene a prendersi la sua. Le mette un palmo dietro la schiena, appena sopra la vita, e la spinge leggermente in avanti, senza guardarla. Dalla sicurezza con cui l’afferra – d’altronde non c’è dubbio che lei asseconderà i suoi desideri – sembra che sia venuto a prendere il suo cavallo. Si salutano senza tenerezza, senza allegria.

Nel pomeriggio fiumi di biciclette si riversano sul lungomare. A Cinquale le casette basse, di un giallo e rosso morbido, l’intonaco perfetto, le imposte chiuse, mi ricordano un dipinto di Hopper. Cammino tra le pinete un parco giochi in disuso, un giardino incolto. Una volta abbandonata la facciata di perfezione, le cose assumono una dimensione più umana, familiare. Ormai è sera, si

accendono le prime luci. Il mare non avendo un colore proprio in questa parte di costa prende quello del cielo, che a quest’ora è rosa e arancio, come le luci dei lampioni che nella foschia del mare sembrano delle fiammelle. Poi finalmente il buio, la notte calda, i fari delle macchine alla ricerca di un parcheggio.



Livorno, luglio

Oggi il cielo era azzurro chiaro, nel vento tutto sembrava scivolare con la leggerezza di un volo… Il mare arrivava fino in piazza, allora ho sceso i gradini della chiesa e ho fatto il bagno, poi mi sono sdraiata sull’ultimo scalino e ho preso il sole… e mentre guardavo i riflessi dell’acqua sulla pietra ti ho pensato. E le campane hanno cominciato a suonare, il sole tramontava… Domani alla stazione farò finta di essere appena arrivata, guarderò in basso, mi girerò dall’altro lato e poi ti verrò incontro come se fossi sempre stato qui…





(Leggi la seconda parte)


Francesca Coppola è scrittrice e filmmaker. I suoi testi sono stati pubblicati su BOMB Magazine, NY Tyrant, Fence, FU Review Berlin e altre riviste. Ha pubblicato un libro di poesie (Where the Sirens Live, 2019). Vive a Roma.

illustrazione La lunga strada di sabbia (parte 1) - Francesca Coppola
“La lunga strada di sabbia”, un memoir di Francesca Coppola in quattro parti per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni

3 Commenti

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La lunga strada di sabbia (parte 2) || Francesca Coppola || SPLIT || Pidgin Edizioni
7 Maggio 2021 a 11:12

[…] (Leggi la prima parte) […]

La lunga strada di sabbia (parte 3) || Francesca Coppola || SPLIT || Pidgin Edizioni
14 Maggio 2021 a 10:51

[…] la prima parte e la seconda […]

La lunga strada di sabbia (parte 4) || Francesca Coppola || SPLIT || Pidgin Edizioni
21 Maggio 2021 a 8:44

[…] la prima parte, la seconda parte e la terza […]