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illustrazione Flavio Natale - Benzina - SPLIT - Pidgin Edizioni

Benzina

Parte I – Sì

Dentro la macchina viaggiava una donna. Dentro la donna si intersecavano organi connessi da autostrade complesse. Dentro gli organi, il sangue fluiva a velocità moderata, più o meno alla stessa andatura di una Twingo azzurrina sulla statale 119, diretta al matrimonio di Laura.



Il tailleur di Elena si spalmava sul corpo come burro su un toast, i capelli carminio un grumo di marmellata alle fragole. Un tir viaggiava in direzione contraria e, una volta sfilato, svelò il centro commerciale “La Fornace.” Intorno, pianure rigonfiate in colline, di un giallo bruciato. Un casermone col tetto in eternit resisteva come una chiesa sconsacrata. Elena odiava questi posti dimenticati da Dio: si domandava come le persone potessero essere felici, in quella vasca di desolazione.

Persone come il benzinaio della stazione dove si era appena fermata.

Elena non aveva abbassato il finestrino per tutta la durata del viaggio, e l’aria condizionata aveva lasciato la macchina a secco.

La canicola agrigentina avrebbe rovinato quel suo perfetto chignon.



Il benzinaio si alzò dalla sedia, mollando sul tavolino bianco il cellulare da cui sgorgavano risate e applausi. La casacca Esso nascondeva senza successo la rotondità della pancia, uniformata per coerenza alla testa, tonda e pelata. Le scarpe antinfortunistiche scomparivano dentro i pantaloni a tubo. Due chiazze di sudore gravitavano sopra la maglietta come sistemi solari. Aveva in mano i resti di un Kinder Pinguì, che lanciò a terra.

Elena aprì il finestrino del guidatore, e il calore contaminò la vettura refrigerata.

«Pieno, grazie.»

«Assurdo,» muggì il benzinaio. Si asciugò mezza lacrima. «Certo, signorina.»

L’uomo-Pinguì inserì il pistolone nel buco. I suoi occhi rincorrevano i numeri sulla pompa, ma le orecchie erano rivolte alla melodia sprigionata dal telefono collegato al Wi-Fi. Un pianoforte, inserito per i trucchi di magia: solo gli spettatori affezionati erano in grado di riconoscerlo. Il rifornimento durò una quindicina di secondi.

«Le do un’occhiata all’olio? Sa, con questo caldo…»

La voce ballonzolò fino a Elena.

Mi dà una controllatina, e poi mi fa pagare cento euro.

La irritava la gentilezza a prezzo di costo. All’esterno però edulcorò il concetto e sorrise. Prima che potesse aprire la bocca, l’uomo precisò.

«È gratis.»

L’imbarazzo le durò il tempo di sbattere le ciglia allungate col Rimmel. Poi lo sventolò via. Un’eccezione conferma sempre la regola.

Lo ripeteva sempre ai suoi alunni della terza elementare, per spronare le capre a confermarsi dopo un compito decente. In realtà li demoralizzava e basta.

«Beh, allora sì grazie…» rispose.

Poi domandò il nome.

Salvo. Salvo Gemini.

Nessuno si informa sull’identità di un benzinaio: Salvo avrebbe capito che lei era una brava persona.

L’uomo aprì il cofano, e il tanfo lo colpì dritto sul naso.

«Quant’è che non la fa controllare?»

«Cosa dice, signor Gemini?»

Nome, contatto.

«Dico che se continua così fonde il motore.»

Non mentiva: anche lei aveva sentito la puzza di bruciato. Era da qualche mese che non portava la Twingo a revisionare, confessò. Se per qualche mese si intendono due anni. Salvo tirò fuori dalla tasca un Kinder Paradiso. Lo aprì oculatamente. Lo zucchero a velo volò accanto al cadavere del Kinder Pinguì, sfatto sull’asfalto rovente. L’uomo trotterellò verso il gabbiotto.



Elena aprì il gruppo Regalo Matrimonio Laura. Voleva assicurare gli invitati del suo arrivo, nonostante nessuno gliel’avesse chiesto. Sullo schermo 87 messaggi che si dividevano tra “Dove siete?” e “Vi vedo.” Il cellulare frinì per un po’ sotto i colpetti della donna, ma senza successo. Neanche una tacca di 3G.

La platea del matrimonio si ripartiva tra parenti degli sposi – Laura e Marco – e colleghi dell’università che Elena non incontrava da anni. Doveva farsi trovare in forma, e per questa ragione aveva tirato fuori dalla naftalina il suo tailleur con lo scollo a V, da cui spuntavano tette sode sostenute dal wonderbra, erette come due colline. Il completo era bianco, e lanciava a Laura un messaggio inequivocabile.

Questa è la puntata finale.

Avere Laura come amica voleva dire trovarsi costantemente sul palco di un talent show, fin dai giorni delle matricole. I giudici potevano variare – professori universitari, colleghi, datori di lavoro – ma il risultato no: una perdeva, l’altra vinceva. Sempre.

Ma oggi glielo do io lo spettacolo.

Una zaffata di benzina la ricondusse nel mondo Esso.

Salvo la stava esaminando dal finestrino, ed Elena zompettò sul sedile in cotone.

«Basta un po’ di questo e risolviamo!», disse l’uomo, esibendo la tanica d’olio.

«Ah grazie, grazie».

Poco più in là, sul tavolino bianco, due concorrenti suonavano le chitarre col proprio membro, inserito nella buca. Claudio Bisio commentava a pubblico sganasciante.



Parte II – Sì

Dodici minuti. Anche se non era un’esperta, Elena li reputava esagerati per un cambio dell’olio. Il cofano rumoreggiava sotto i colpi dell’uomo.

La gente isolata non ha idea del valore del tempo. Se la prendono comoda. Lo farei anch’io con tre clienti al giorno.

«Lo sa che una volta Vasco Rossi è passato di qui? Ha avuto lo stesso problema…»

Elena rimase titubante per un attimo. Poi considerò i tour on the road. Quella strada portava a Palermo. Diede adito alla chiacchiera.

«Ah sì?»

«Giuro, signorina». Sbucò con la testa dal cofano. Salvo armeggiava con una lentezza estenuante. «Vuole vedere una foto?»

«La ringrazio Salvo, ma…»

Elena si interruppe. Quell’uomo stava trafficando da svariati minuti, e probabilmente le avrebbe fatto pagare qualcosa, anche solo per il costo del materiale. Ma il prezzo poteva scendere a seconda del suo interesse.

«Mah…sì, certo. Se ce l’ha a portata di mano.»

Salvo aveva già mollato tutto, fiondandosi nel gabbiotto a vetri.

Elena era nuovamente sola in mezzo alla vallata, ma si accorse soltanto ora che non era passata neanche una macchina. I pochi carrubi intorno a lei erano così fermi da sembrare dipinti. L’unico suono tangibile proveniva dal gabbiotto. Era la voce di Salvo, ovattata. Non riuscì a individuare natura e/o interlocutore del discorso. Sentì solo l’uomo chiudere la porta dietro di sé. Aveva una foto stretta nella mano destra. Nella sinistra, al posto del Kinder Paradiso, un gelato Oreo a forma di puck.

«Eccola».

Elena afferrò la foto. L’alito di Salvo era impastato di zuccheri, il sorriso decorato da pezzi di biscotto incastonati tra i denti. La donna rispose con una parentesi tirata.

Si aspettava una foto con ma arrivò una foto di Vasco Rossi. Una di quelle istantanee anonime distribuite nei live.

Gliel’avrà data l’agente, quando si sono fermati.

Sotto c’era l’autografo. Caratteri grossi e precisi. Le ricordava la calligrafia dei bambini quando imitano la scrittura dei grandi.

Non sanno che gli adulti invece di scrivere scarabocchiano.

Non approfondì. Vasco Rossi evidentemente firmava così.

«Bella!»

Salvo tese la mano per riappropriarsi del cimelio. Mentre allungava il braccio destro, il sinistro si incastrò nella guaina del finestrino. Il gelato, dopo una breve oscillazione sul bordo della portiera, piombò sul vestito. Elena osservò la chiazza allargarsi sul tailleur candido. Cioccolato e panna macchiano più del sangue. Si trattenne dal prenderlo a calci.

«Oh, mi dispiace tanto signorina. Sistemo tutto.»

«No, guardi Salvo, non si preoccupi, non è nulla…»

Doveva mantenere un contegno. Ma la rabbia le torceva lo stomaco, e all’interno scoppiettava come un microonde che cuoce popcorn. Salvo si infilò con la schiena dentro il finestrino per rimediare. Sbilanciandosi, però, poggiò la mano sulla gonna di Elena, aggiungendo a panna e cioccolato l’ingrediente segreto: una chiazza di olio nero. L’aplomb di Elena si incenerì sotto il sole rovente.

«Ma cosa fa! Si tolga dalla mia macchina!»

Lo spinse fuori dall’abitacolo, premendo le mani sulla testa, calva e arrostita come un Buzzer.

«Via! Vada via!»

Elena poteva finalmente ruggire contro quell’imbranato. Le imprecazioni sarebbero state assorbite dalla gramigna, la reputazione immacolata come dopo un lavaggio, le pompe di benzina unici testimoni dell’accaduto.

«Aspetti, signorina. Aspetti!», disse Salvo, ancorato alla portiera.

Lei continuava a spingere con rabbia, rigurgitando vocaboli immondi, celati per anni sotto manti di chiffon e di “caro”. Immaginò che la pelata di Salvo fosse la bella faccia tonda e bionda di Laura, l’amica che le aveva soffiato il ragazzo, oggi sposo. Con un ultimo strattone stappò l’uomo dalla macchina.

I due si studiarono per un istante, come si conoscessero per una seconda volta.

Il telefono auto-selezionò un altro video dalla playlist. Tirolesi in tracht si esibivano in un magistrale Goaslschnöllen. Schiocchi di frusta si libravano nell’aria, Matano in visibilio.

Fu solo in quel momento che la porta del gabbiotto si aprì. La calura aveva invitato sul palco un ospite a sorpresa.



Parte III – Sì

La donna procedeva a passi lenti, beccheggiando. Gli stivali in similpelle blu anticipavano il resto del corpo. Sembrava avanzare tirata da un filo. Portava meches bionde su base castana, la salopette Esso rigirata sotto rotoli di grasso. Una maglietta assicurava Today is the day to do something great.

La donna si piazzò davanti al finestrino del guidatore, vicino a Salvo. Dall’abitacolo Elena poteva scorgerne soltanto la mano affondata nella ciccia, e sospettava che la donna stesse inchiodando il collega con lo sguardo: lo sperava. Poi la testa di meches si spostò al piano di sotto, spuntando dal vetro. Aveva un paio di Carrera rosa. Se li tolse.

«Insomma, signorina. Che è questo casino?»

Elena ricostruì velocemente i fatti. Identificarsi come vittima senza danneggiare Salvo: questo era il piano. Puntare il dito nascondendo il braccio.

«Vede, non è nulla, è che…»

«L’ho aiutata ma mi ha sgridato!»

Elena sussultò.

Nella voce di Salvo qualcosa era mutato. Sembrava fosse regredito a uno stato infantile, come uno dei suoi bambini di terza elementare. Elena rimase disorientata. Poi proseguì:

«Vede signora…signora?»

Nome, contatto.

«Evelina Gemini. Sono la sorella di Salvo».

La risposta si infilò nelle orecchie di Elena gelata. Il distacco così palese da essere volontario.

«Perché ha sgridato mio fratello?» ringhiò.

«Guardi che io non ho fatto nulla, signora Evelina…»

Nome, contatto.

«Salvo è stato gentilissimo», chiarì Elena. «Solo che è stato un pizzichino sbadato e ha fatto cadere per errore del gelato sul vestito. Ma ripeto, non è colpa sua.»

Evelina spostò il peso dall’anca destra a quella sinistra.

«Lo so che non è colpa sua. È lei il problema.»

Elena si irrigidì.

«Come?»

«Ha capito. Deve chiedere scusa a mio fratello.»

La tigre scalciava sotto il mantello ovino.

«Senta…»

«No, senta lei,» la interruppe Evelina. «Vediamo ogni giorno persone così. Diglielo fratellino. Quante storie ha fatto Brad Pitt quando gli si è fermata la macchina?»

«Vero! Vero!»

«Una Mustang da migliaia di dollari fusa perché aveva scordato la revisione. Che imbecille…»

La bocca di Elena si seccò e il sangue nelle vene cambiò marcia. Provò a deglutire per mettere in sequenza vocali e consonanti, ma Evelina rincarò:

«Mai quanto Elvis, quando bucò la ruota della moto due anni fa. Ci domandò se ne avevamo una di ricambio. Per una Harley-Davidson?» si sganasciò. «Gliela dovetti ordinare. Dormì a casa nostra. Cucinai spaghetti cozze e vongole. Non faceva altro che dire “Wonderful, wonderful.”»

La testa di Elena prese a fare l’hula hoop. I discorsi di quella donna erano privi di logica. Brad Pitt non sarebbe passato di lì neanche sotto tortura. Elvis era morto quarant’anni prima. Slacciò un bottone della giacca per prendere aria, mulinando la mano davanti la faccia. Il finestrino sinistro inquadrava Evelina, piegata ora con i gomiti sul montante. Quello destro dava su una valle senza vita. Un brivido le galoppò lungo la schiena.

«Vai a prendere le foto!»

Salvo schizzò verso l’ufficio come se lei gli avesse lanciato l’osso.

“Ma che orchestra di pettorali!” gracchiò Luciana Littizzetto. Il telefono aveva ripreso il soliloquio. La folla inneggiava “Ancora! Ancora! Ancora!”

Evelina roteò gli occhiali creando un piccolo vortice rosa. Elena sprofondò nel sedile. Doveva accendere la macchina e dare gas. Ma Salvo era già di ritorno. Le consegnò un pacco di foto ornate da ditate di Pringles.

«Bravo tesoro.» Evelina gli passò la mano sulla testa. Salvo regrediva a ogni parola della sorella. Dritto verso lo stato fetale, nella placenta.

«Guardi qui, guardi,» le indicò Evelina. «Marlon Brando, Rodolfo Valentino, Vincenzo Mastroianni. Lui stava su una Triumph TR3 pazzesca…»

Quando Elena prese in mano il blocco, il suo cuore mancò un battito. Il flusso sanguigno tentava di correre contromano, indietro nel tempo fino al punto in cui aveva svoltato. Frank Sinatra, Sophia Loren, Nino Manfredi, Raffaella Carrà, Robert De Niro. Vivi o morti senza eccezioni. Le foto erano tutte identiche. Banali stampe da internet, come la prima. In fondo la stessa calligrafia infantile. Elena sbarrò gli occhi, come se un autotreno le stesse correndo dritto sul viso.

«Beh, molto interessanti…»

Tremava. Sollevò lo sguardo per riconsegnare le foto ma Salvo non c’era più. Lo sentì sulla destra. La zip contro il vetro del passeggero. Salvo scese di livello, scrutando Elena con una patatina in mano. Lei cercò di non farsi intimidire.

«Grazie Salvo, grazie Evelina. È stato un piacere, ma ora vi devo proprio lasciare. Ho un matrimonio…»

L’uomo trangugiò la Pringles, frantumandola tra i canini. La faccia spiaccicata sul finestrino, gigante.

«Siete stati gentili, a presto.»

Doveva andare via. Lontana da quei fratelli.

Girò le chiavi nella toppa. Il motore barrì senza ruggire. Riprovò, nulla. Elena guardava davanti a sé: il display del cruscotto acceso, ma la spia dell’olio lampeggiava ancora. Tentò nuovamente. La macchina restò immobile. Salvo sorrise.

Aveva tagliato i fili.

La sorella lo accarezzava con lo sguardo. Poi, in tripudio da zuccheri, il fratellino esplose:

«Quattro sì! Quattro sì!»

«Calmo tesoro, calmo,» lo placò Evelina. «Che figura faremo quando saremo davanti a milioni di persone.»

Elena era pietrificata. Non poteva andare via. Non poteva uscire dalla macchina.

Poteva solo pregare.

Evelina si assestò la salopette davanti a una platea invisibile.

«Cari giudici, veniamo da Cammarata, provincia d’Agrigento. E vi siamo…»

«Quattro sì! Quattro sì!»

«Non ora, Salvo!»

È tutto un sogno. Svegliati.

«Vi siamo grati per questa opportunità. Il nostro è stato un percorso travagliato. Sapevamo di avere talento, ma non riuscivamo a capire quale.»

«Quattro sì! Quattro sì!»

Evelina lo fulminò. Stava rovinando tutto sul più bello.

«E dopo anni di ricerca, abbiamo scoperto la nostra vocazione. Dunque, signori giudici…»

Indicò il fratello per il momento clou.

«Prego, Salvo.»

Lui si bloccò, inebetito.

«Dai, l’abbiamo provato,» sussurrò Evelina.

Allora Salvo si ricordò. Piazzato davanti la Twingo, fece finta di sfilare un mantello adagiato sopra un oggetto inesistente.

«Venti teste di uomini e donne! Il più alto numero di omicidi compiuti da una coppia nella storia d’Italia. E questa qui davanti è la nostra…»

Aprì il braccio destro verso Elena. Salvo rullò le mani sopra il cofano. L’abitacolo della macchina rimbombava.

«Ventunesima!»

Elena chiuse gli sportelli e alzò il finestrino. Le dita ballavano senza sosta. Una follia solitaria aveva nidificato nel cuore dei fratelli da chissà quanto tempo. Ma lei non lo sapeva. Non poteva saperlo.

Pensava fossero solo uomini che sapevano di benzina.

Salvo frugò nella tasca della salopette. Ma stavolta tirò fuori una chiave inglese. Iniziò a ticchettare sul vetro del guidatore, cucchiaino su un uovo alla coque. Individuava il punto di rottura. Tic. Una vena. Tic. Un ramo. Tic. Una fronda. Poi cristalli in frantumi. E un rumore sordo di uovo fracassato.



Parte IV – Sì

Dentro il gabbiotto vibrava un frigo a pozzetto, lungo e rettangolare. Dentro il frigo, ventuno teste riposavano tra gli Oreo e i Cornetti Algida. Dentro le teste, gli occhi bianchi erano aperti come gocce alla panna.

Elena aveva preservato la sua raffinatezza.

Lo chignon in ordine, anche se tinto di meches rosso sangue, un po’ kitsch. Aveva orecchie ma non poteva sentire. “Mi piacciono molto le persone che vanno a fondo nelle cose. È lì che si vede la differenza tra un’esecuzione perfetta e un’esecuzione vera. Credo siano queste le performances che devono vedersi sul nostro palco.” Nina Zilli elogiava un suonatore di handpan. Una melodia commovente fremeva sotto le sue parole. Il pubblico brillava di lacrime sincere.

Standing ovation.

Fuori dal gabbiotto, la macchina di Elena brucava. Altre le facevano compagnia, disseminate nella sterpaglia come pecorelle di un gregge. Salvo aveva riattaccato con la playlist YouTube.

Evelina sedeva nell’ufficio, compilando il 730. Sentì un’automobile decelerare. I passi di Salvo risuonarono per tutta la stazione.

Un pieno.

Lei ebbe un brivido di piacere, e indossò i Carrera.

Salvo compì il suo lavoro. Poi domandò:

«Le do un’occhiata all’olio?»





Flavio Natale nasce e vive a Roma. Redattore della rivista Marvin, è appassionato di cinema horror e B-movies. Ha sviluppato un feticismo per Sharknado, per il quale è attualmente in cura.

illustrazione Flavio Natale - Benzina - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Benzina”, un racconto di Flavio Natale per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni