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illustrazione Ostaggi - Eva Luna Mascolino - SPLIT - Pidgin Edizioni

Ostaggi

Mi chiamo Bianca. Non come la neve, e nemmeno come certe leggende che inventano le Levatrici. Mi chiamo Bianca come la coperta in cui ero avvolta quando la mia Genitrice mi ha preso fra le braccia. Di solito il cognome ci viene assegnato in maniera casuale, mentre per il nome concedono sempre un paio di minuti, in ospedale. Così, io sono Bianca Lehman da trentatré anni e due mesi. La mia carta di identificazione sostiene che per i primi tre anni sia stata affidata a una Nutrice, a una Logopedista e a un Giocatore. Non posso confermarlo con sicurezza, ma non avrei motivo di dubitarne: l’Ufficio Identità è sempre molto accurato nel rilasciare i documenti.

La prima immagine che mi viene in mente, se penso alla mia infanzia, è di poco successiva a quel periodo. Dovevo avere già compiuto quattro anni e la mia Allenatrice mi aveva appena portato un paio di ginocchiere. A che servono?, le avevo chiesto. Mi sembravano dei giganteschi guanti con cui proteggersi le dita dalle spine del Giardino. A non sbucciarti le gambe quando cadi, mi aveva spiegato lei. Ma io sto imparando a non cadere più. L’Allenatrice mi aveva sorriso. Non si smette mai di cadere, Bianca. Il mio secondo ricordo è dello stesso anno. Conoscere il Pianista mi aveva entusiasmato più della Lettrice, del Cuoco e dell’Ingegnere. Insieme a lui, nella Camera, era arrivato uno strano oggetto più largo che alto, scuro fuori e con un cuore bianco e duro sul davanti. A che servono?, gli avevo chiesto indicando una serie di pulsanti rettangolari. A imparare l’ordine e a dargli un suono, mi aveva spiegato il Pianista. Ma io sono già molto ordinata. Speravo che lui aggiungesse qualcosa, com’era successo con l’Allenatrice, invece era rimasto zitto e aveva chiuso il pianoforte a doppia mandata.

Il giorno del mio sesto compleanno l’Educatrice aveva parlato con il Dottore, con la Psicologa e con un paio di altre persone nella Saletta. Dallo spioncino le voci mi arrivavano ovattate. In ogni caso, avevo capito di non essere tagliata per la carriera militare, perché mi mancavano parecchie diottrie. Non avevo neanche molta manualità, nonostante i miei tentativi di costruire cigni e gufetti di legno, né promettevo di diventare una campionessa di scacchi. Ero bradicardica e per di più mi piaceva leggere, perciò alla fine avevano unito i puntini e tracciato i primi bivi del mio futuro presentandomi alle Bambine e ai Bambini del Centro Filologico.

A dieci anni avevo detto addio a sette di loro e mi ero iscritta al Collegio Futura. Dopo tre anni, all’Alta Scuola Meritocratica, delle persone che conoscevo era rimasta soltanto Marlene. A diciott’anni, quando lei si era iscritta alla Facoltà di Legge e io a quella di Storia e Letteratura, ci eravamo separate pure noi. Nel frattempo avevo conosciuto una ventina di persone, ma non ero rimasta legata a nessuna di loro. Preferivo passeggiare lungo il Lago o guardare documentari sulle Civiltà Antiche. Non ero misantropa, ma la mia Allenatrice mi aveva insegnato la paura di graffiarmi le ginocchia e grazie al mio Pianista avevo imparato l’arte del silenzio.

Se ho ripercorso a grandi linee la mia giovinezza è per spiegare che, quando ho incontrato la mia Genitrice nel bar in cui servivo la colazione tre giorni a settimana, non avevo nessuna ragione pregressa per escogitare il Piano Lehman. Ero solitaria, non insoddisfatta. Riservata, forse, ma non pericolosa. Poi, però, lei mi aveva rivolto la parola mentre sparecchiavo il suo tavolo e, una frase dopo l’altra, aveva stravolto la mia prospettiva. Si ricordava del suo Giorno del Concepimento e del nome dell’Ospedale. La stanza era la 252, al terzo piano. Erano passati quasi trent’anni, aveva detto, e di sua figlia non aveva mai avuto lo straccio di una notizia.

– Non è previsto restare in contatto – le avevo ricordato io, che già sospettavo qualcosa. Ero nata nella stessa clinica, allo stesso piano, nella stessa stanza. Poteva sempre trattarsi di una coincidenza, oppure no.

– Lo so – aveva replicato lei – ma avere una buona memoria non è mica un reato.

– Sa anche in che stagione è nata la Bambina?

– Il tre maggio, in primavera.

Adesso non c’erano più dubbi.

– E… chi è venuto a prenderla?

– Una Nutrice, come al solito. Poi le hanno affiancato una Logopedista e un Giocatore. Non mi hanno detto altro.

– Come mai lo sta raccontando proprio a me? – mi ero informata. – Se lo riportassi alle Guardie, finirebbe nei guai. Perderebbe il lavoro e tutto il resto.

– Avrai più o meno la sua età – aveva detto, ignorando le altre osservazioni. – E per un attimo ho sperato che la conoscessi, o che fossi lei.

– C’è una probabilità su…

– Su ottantasette. Certo. Ma secondo la tua targhetta ti chiami Bianca anche tu, questo abbassa la probabilità a uno su ventisei.

– Io non…

– Lo so, rilassati. Non puoi essere lei.

– Ah, no?

– Nessuna Genitrice è mai stata così fortunata.

A quanto pare, invece, lei aveva appena realizzato l’impossibile. Perché voleva ritrovare la Bambina? Che cosa ci avrebbe guadagnato? A prima vista mi era sembrata una donna tranquilla, elegante. Ora nel suo sguardo avevo intravisto la lenza abbandonata di un pescatore. Qualcuno ci aveva appeso un verme e aveva lasciato che se lo mangiasse il tempo.

Mi ero allontanata per tornare in servizio, però da quell’incontro non mi ero più ripresa. Avevo preso in prestito decine di saggi sulla maternità, poi su questioni etiche e antropologiche di ogni sorta. Avevo approfondito la sociologia parentale e la psicologia dello sviluppo, accoppiandola ai fondamenti di diritto della nostra comunità. A otto mesi di distanza, ero ancora al pari con gli studi e intanto ero arrivata alla conclusione che il nostro Sistema delle Nascite e della Crescita fosse troppo rigido: avremmo dovuto impedire alle Genitrici di separarsi da Bambine e Bambini, se non l’avessero deciso di loro volontà. L’economia ne avrebbe risentito per qualche decennio, ma dall’altro lato avremmo garantito a centinaia di donne una vita diversa, più libera. Non era giusto obbligare a lavorare chi avrebbe preferito dedicarsi al suo focolare, nemmeno a costo di assicurare alle nuove generazioni un’educazione basata sul loro carattere e sulle loro inclinazioni.

Di conseguenza, nell’estate di due anni fa ho teorizzato un nuovo modello ispirato alle teorie di Jefferson e di Le Carré, che riprendeva in parte gli studi di Münster e di Bevilacqua per poi abbracciare le considerazioni più mature di Lebronskij, Yoshito e Carreras. Mezzo mondo al servizio di un’idea rivoluzionaria e pragmatica, che non mancava di accuratezza a livello giuridico. Ho stilato il Manifesto del Piano Lehman e l’ho proposto come tesi sperimentale al mio Relatore, che me l’ha bocciato. Mi sono rivolta alla mia Referente Sociale e lei l’ha trovato ingenuo. Allora ho chiamato Marlene e le ho detto:

– Forse tu che fai Legge puoi spiegarmi che c’è di tanto insensato nel mio progetto.

Lei è rimasta in silenzio per una manciata di secondi.

– Non è che sia insensato, è che farebbe paura.

– Paura a chi?

– Agli equilibri del sistema.

– Non è così che funziona il progresso? Se non fa paura, è un cambiamento finto.

– Servirebbe comunque la protezione di un Investitore, oppure di una Moderatrice.

– A me basterebbero la tua e quella di un paio di donne incinte – le ho risposto.

Abbiamo radunato dieci conoscenti e ci siamo riunite ogni due settimane nel bar in cui facevo la cameriera. Loro imparavano a conoscersi, io portavo sfilze di cappuccini e biscotti. Avevano tutte qualche interesse nel tenere la Bambina o il Bambino dopo il Concepimento: qualcuna sperava in un sussidio fuori moda, ma ancora previsto dallo Statuto; altre erano state fecondate per amore e non volevano affidare a una squadra di sconosciuti il frutto del loro sogno familiare. E poi c’era Marlene, che contribuiva per puro spirito speculativo, e io che stavo cercando di riscattare la tristezza di una semisconosciuta con un esperimento etico senza precedenti.

Una simulazione di aborto spontaneo dopo l’altra, abbiamo creato la copertura perfetta per ognuna delle nostre adepte e poi le abbiamo aiutate a partorire nel Bosco, rischiando più di una volta di attirare l’attenzione delle Pattuglie o delle nostre Squadre Formative per Giovani Adulti. Prudenza e furbizia, comunque, ci hanno ripagato fino a quando non abbiamo piantato un paio di tende vicino al Fiume. Era estate, tre di noi sapevano pescare e altre due coltivavano ortaggi e verdure. Ce la saremmo cavata almeno per i primi mesi, dopodiché saremmo venute allo scoperto e avremmo rilasciato dichiarazioni e video per dimostrare che la nostra missione era riuscita, e che con il supporto della società ogni donna sarebbe rimasta una Madre perfetta fino alla maggiore età della sua prole.

Come ormai i giornali hanno riportato fino allo sfinimento, però, non avevamo messo in conto proprio tutto. Il Piano Lehman non prevedeva corsi preparatori di morale e non contemplava l’ipotesi di una rottura volontaria del patto familiare, sulla base di una fiducia utopistica ed eccessiva nei confronti dei suoi contraenti. Il risultato è stato catastrofico in due casi su dieci, una percentuale intollerabile perfino per un’ottimista come me. Una Bambina, Selene, è stata picchiata a sangue dalla sua Genitrice, che non è riuscita a farla smettere di piangere per sette ore: sonno e nervosismo le hanno dato alla testa, e il tronco di un albero ha fatto il resto. Un secondo Bambino, Amos, si è trasformato nel giocattolo sessuale del padre a soli tre mesi, insieme a un leprotto e a una cintura.

Quando gli episodi sono venuti allo scoperto, io e Marlene ci siamo autodenunciate. Abbiamo consegnato i colpevoli alla giustizia e pregato il resto del gruppo di affidare Bambini e Bambine alle autorità competenti. Siamo state processate per una decina di reati diversi e ci siamo dichiarate colpevoli. Io ho avuto un paio di aggravanti in più e il Piano Lehman è stato dichiarato un crimine contro i diritti umani, mirato a rendere le nuove generazioni un ostaggio dell’incompetenza civile. A oggi me ne rendo conto anch’io, anche se ormai è tardi per tornare sui miei passi. È giusto che venga condannata a morte, a differenza di Marlene e delle Genitrici a cui ho rovinato la vita. Ed è un bene che non possa causare altri danni, oltre a quelli che ho già lasciato in eredità a dieci neonati e a chi li ha messi al mondo.

Se ti sto scrivendo prima di andare al patibolo, quindi, non è per chiedere il tuo perdono. Volevo consegnarti la mia testimonianza e spiegarti, al di là di quanto racconta la stampa, che non sono un mostro. Che non volevo il tuo male. Sono stata avventata, scorretta. Velleitaria nella mia speranza di inaugurare un’evoluzione della società. Ora sono guarita e osservo la mia illusione come si fa con i leoni allo zoo. Vorrei non avere conosciuto mia madre, Amos, ma ancora di più vorrei che tu non avessi conosciuto tuo padre.

Ho fiducia nel fatto che la nostra comunità saprà renderti un uomo straordinario, a suo tempo e a suo modo, eppure tremo ancora al pensiero di avere messo nel tuo passato una bomba a orologeria. Almeno tu, se puoi, fa’ che non esploda.





Editor e traduttrice freelance, Eva Luna Mascolino è nata a Catania nel 1995 e si è laureata alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste dopo avere svolto tre scambi all’estero.

Ha vinto il Premio Campiello Giovani 2015, tiene corsi di scrittura e collabora da anni con concorsi, festival e riviste culturali, oltre ad avere cofondato nel 2020 Light Magazine, il primo magazine in Italia a non usare il maschile sovraesteso.

Attualmente frequenta il master in editoria organizzato da Fondazione Mondadori, AIE e La Statale, e sta svolgendo un tirocinio nella redazione de ilLibraio.it.

Suoi racconti sono apparsi su riviste quali Fillide, Pastrengo, Crack, Risme, Narrandom, Sulla quarta corda, Malgrado le mosche e Il Loggione Letterario.

illustrazione Ostaggi - Eva Luna Mascolino - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Ostaggi”, un racconto di Eva Luna Mascolino per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni