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illustrazione Resti - Matilde Moro - SPLIT - Pidgin Edizioni

Resti

Ho preso a pugni un muro perché così il pugno è diventato viola. Il mignolo e la parte sottostante, la nocca del medio, tutto viola. Ho preso a pugni un muro con forza. Con cieca forza e cieca rabbia perché tutta quella cieca forza e cieca rabbia altrimenti io non avrei saputo dove metterle. Ho preso a pugni muro e tavolo, nella mia stanza, più volte, col cuore che mi batteva in petto come un tamburo, un martello, una mannaia e una mazza da baseball sulle tempie ma da dentro. Piangevo. E anche i singhiozzi erano singhiozzi di forza ed erano perché non c’era in fondo null’altro da fare. Nient’altro per me. Ho preso a pugni un muro. La città si vuota alle ventidue e anche qualche minuto prima e tutti dentro a casa. La città è libera e triste. La città è disgustosa. E ogni giorno è disgustoso, disgustoso e inutile, come il precedente e il successivo, in un tranquillo loop senza fine. Anche se finisse, ne sono persuasa, non ce ne accorgemmo. Vivo ormai in un unicum temporale. Un giorno una settimana o una vita alla volta non fa differenza. C’era una volta una poesia e c’era un fiore e la poesia diceva qualcosa come vivi la vita come fosse un solo giorno come fanno i fiori ma oramai le poesie sono solo vezzi e i fiori non servono più a nessuno. Il muro non ha fatto una piega e d’altra parte cosa mi aspettavo. Il legno del tavolo, da pochi soldi e dell’Ikea, mi ha dato qualche soddisfazione in più e porta ora una piccola cicatrice. Il cesso in cui ho vomitato per ore una volta smaltito il gin, la doccia in cui mi sono ripulita alla meglio, nulla. Il giorno dopo però il pugno era viola e mi faceva male. Era gonfio. Una piantina bianca è atterrata sulla mia scrivania sotto forma di scuse, un piccolo biglietto altrettanto bianco pinzato a un petalo. Nessuno è perfetto. Lo diceva Billy Wilder, lo dico anch’io. Le nocche, appunto, facevano male. Le dita indolenzite e un generale senso di nausea. Il muro nemmeno un graffio. La bottiglia del gin mezza vuota. La città, insomma, dorme. Ma nemmeno: sonnecchia. Halfawake. “La città”, poi, è la mia città di quando ero piccola che ora è la mia città per forza di cose. Ci sono anche le lucine di natale sugli alberi e nelle vie ma brillano per nessuno. È come la vecchia signora di Pirandello che si imbelletta solo per diventar ridicola, solo che nessuno si prende nemmeno più la briga di guardarla. Le luci illuminano alla meglio la via dello shopping, le facce degli zombie, le facce dei mostri. Sono facce di mostri e facce di zombie quelle che incontro per le vie. Qualche volta capita che uno mi saluti: non capisco perché. Io non conosco più nessuno, nessuno conosce più me. Quelli che ancora fanno eccezione mi conoscono troppo e oltre al limite dell’utile e oltre la ragione. La contraddizione mi schiaccia, spiaccica, pugnala le budella, stritola quel poco di cuore che mi resta in petto. Le dieci sono passate da qualche minuto e cammino nella città deserta del coprifuoco. È complesso e semplice insieme fare esperienza del vuoto. Vuoto fuori, vuoto dentro. La nebbia è pesante e si attacca alle ciglia, vedo pallini di luce mentre metto un piede davanti all’altro sulle rotaie del tram. Luci bianche e blu, è una macchina della polizia. Tutti a casa, tutti agli ordini, la minaccia serpeggia. Inconsapevolmente sobbalzo, me ne accorgo, mi arrabbio, che vita è? È così che ci si trova a prendere i muri a pugni, giuro, la cosa più bella degli ultimi mesi. Se solo potessi colpire più forte, fami più male. Sul muro stanno gli zombie, sul muro sta la vita che fagocitano. La vita che succhiano e poi mandano giù è la loro: non lo sanno, non lo sentono. Hanno perso il gusto e l’olfatto. La rabbia è un ricordo lontano. Il tatto non serve più. Le dita si muovono ormai solo sulle tastiere dei portatili e la strada la sanno a memoria. Mangiano mangiano mangiano. Un pigro indolente morso alla volta si divorano l’esistenza, non c’è fretta, anzi c’è tutto il tempo del mondo, stasera tanto siamo chiusi in casa, non c’è nulla da fare e in tv danno sempre le stesse cose. Mia sorella è undici anni più giovane e ascolta la stessa musica che ascoltavo alla sua età, come me undici anni fa crede di sapere tutto, è insieme piccola e grande e bellissima. Non lo sa. Camminiamo per il centro, una cuffietta a testa, canticchiamo insieme, a un certo punto urlo a squarciagola un orrendo ritornello, mi guarda imbarazzata, si vergogna di me, poi in una frazione di secondo sceglie, cambia rotta, si mette a ridere, ricomincia a cantare, non ne ha idea. Non il minimo sospetto della fatica che costa ridere quando il mondo attorno è vuoto e non puoi andare che a sbattere. Anche i suoi denti sono bellissimi e soprattutto quelli che le mancano e di cui per un secondo, mentre ride, si dimentica. Zombie dappertutto tutto il tempo e ricordarsi di stare vivi è una fatica. Ti svegli e ancora semicosciente allunghi una mano in quello che è ormai un riflesso incondizionato. Prendi il telefono. Come un polmone respira, come il cuore batte, come il cervello funziona da solo, così la tua mano si allunga, prende il cellulare. Se ti va bene nella stanza c’è già un po’ di luce e se no la prima che vedi è quella blu dello schermo. Se ti va bene era spento e devi prenderti almeno qualche attimo per accenderlo e se no le notifiche sono già tutte sullo schermo: la giornata può cominciare. Apri WhatsApp. Controlli le e-mail. Scorri la home di Instagram. Cosa c’è di nuovo su Twitter? Reddit? Telegram? Metti una canzone su YouTube. Hai qualcuno accanto nel letto? Si / no / chi se ne frega. Non sei mai solo, sei sempre solo. Lo schermo pieno di contenuti, il resto attorno è vuoto per lo più. Vuoto fuori, vuoto dentro. In mezzo resta solo la pelle ma è ogni giorno più sottile. Prima o poi su un muro ce la lascio tutta. Mia sorella per un attimo ha riso e non lo sapeva, era bella e le luci sul suo viso non erano quelle sulle facce dei mostri. Mi chiedo come siano le luci sul mio di viso, ma sospetto per la maggior parte del tempo se ne stia al buio. Sospetto che la consequenzialità sia perduta per sempre, causa ed effetti si sono liquefatti come tutto il resto. Però la mattina dopo che l’avevo sbattuta contro il cemento la mia mano era gonfia e viola.





Matilde Moro è nata a Padova nel 1997. Si è laureata in Giornalismo e ha conseguito un master in diritti umani a Londra dove ha vissuto per quattro anni. Tornata in Italia, lavora come giornalista freelance.

illustrazione Resti - Matilde Moro - SPLIT - Pidgin Edizioni
“Resti”, un racconto di Matilde Moro per la rivista SPLIT di Pidgin Edizioni