Sale e sangue
(Racconto pubblicato in inglese su BULL e tradotto in italiano dall’autrice stessa.)
Dario vuole portarmi sugli scogli ogni giorno d’estate. Quando era piccolo, suo padre lo trascinava al porto di Livorno, dove lavorava. Dario correva tra le reti e cacciava granchietti ficcando le dita nelle crepe tra le rocce. Suo padre gli aveva insegnato a non avere mai paura.
Livorno si ergeva sulla costa rocciosa, ma i miei genitori preferivano Pisa e le sue spiagge sabbiose, dove non succedeva niente. Leggevano sulle sedie a sdraio mentre giocavo da sola. Non c’erano animali a cui dare la caccia o scogli da esplorare. Studiavo ogni singolo granello di sabbia; strizzavo gli occhi per vederli meglio come in un caleidoscopio: macchiette marroni, bianche, nere, grigie. Una volta avevo assaggiato la sabbia e mi era scrocchiata tra i denti. Mia madre si era voltata per un attimo. «Sputa,» aveva detto, e aveva chiuso gli occhi di nuovo, il viso verso il sole.
Quando Dario mi porta al mare, i suoi capelli si annodano e s’imbianchiscono della polvere salina lasciata dal libeccio. Lo aiuto a scioglierli. Le mie mani profumano di sale per tutta l’estate. Sediamo sulla riva, coi sassolini che ci rotolano tra le dita, finché Dario decide di fare il bagno.
Anni fa, il padre di Dario è stato schiacciato da un container, la testa spappolata sul cemento macchiato di sale. Il Tirreno si è portato via il resto del corpo come con una conchiglia staccata da uno scoglio. La testa no. E’ rimasta lì.
Quando facciamo il bagno, le mie gambe tremano a ogni passo. Non indosso gli occhiali perché ho paura che le onde li portino via, quindi vedo a malapena ciò che ho sotto i piedi: ogni pozza scura nasconde ricci di mare, meduse, punte impreviste, crepe profonde. Dario salta tra gli scogli, con la schiuma bianca delle onde che gli abbraccia le caviglie abbronzate. Non gli importa cosa l’acqua nasconda, e si tuffa così in fretta che non me ne accorgo neanche, tutta presa a scandagliare il fondale. Per una manciata di secondi penso che Dario non riemerga; immagino il sangue che si dilata nell’acqua come veleno in un’arteria. Il mare si prende sempre ciò che gli appartiene.
Un giorno, sulla spiaggia di Pisa, mi ero addormentata sul materassino e la corrente mi aveva trascinata lontano dalla riva. I miei genitori seduti a leggere sulle sdraio sembravano anche loro piccoli come granelli di sabbia. Avevo pensato di non tornare mai più. Strizzavo gli occhi per cercare una ruga di preoccupazione sui loro visi ancora rivolti al sole. Già da piccola non vedevo niente.
Ogni giorno d’estate, Dario vuole portarmi al mare, ma quando facciamo il bagno lui sfreccia via, oltre gli scogli, oltre le secche, come se cercasse qualcosa, un ricordo impigliato in una rete. La sua testa spunta dall’acqua; i capelli neri ondeggiano come alghe tra le rocce. Non porto gli occhiali, e controluce Dario sembra una macchia scura contro il sole. Anche se non lo vedo, so che non si guarda mai indietro.
Rachele Salvini scrive sia in in inglese che in italiano e i suoi racconti e saggi sono apparsi su varie riviste italiane e internazionali, tra cui Necessary Fiction, Prime Number Magazine, American Book Review, e altri. Ha vinto l’edizione 2020 del concorso 8×8, si sente la voce, e un suo essay di creative nonfiction in inglese ha vinto l’edizione 2020 del contest Stirling Spoon: Identity in America. È anche traduttrice, e le sue traduzioni sono state pubblicate o in attesa di pubblicazione su Modern Poetry in Translation, Lunch Ticket, L’Inquieto, e altri.
La versione in lingua inglese di questo racconto, intitolata “Salt and Blood”, è disponibile su BULL qui: http://bullmensfiction.com/fiction/salt-and-blood/