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immagine La lunga strada di sabbia (parte 3) - Francesca Coppola

La lunga strada di sabbia (parte 3)

(Leggi la prima parte e la seconda parte)



Salerno, luglio

È già notte quando arrivo a Salerno. Ho perso l’ultimo intercity che mi avrebbe portata fino in Calabria. Mi siedo ai tavolini di un caffè, ordino un bicchiere di latte di mandorle con acqua frizzante. Cammino tra le banchine: i bar chiudono, i ristoranti spengono le luci, i ragazzi se ne vanno. Poi l’attesa alla stazione, i binari illuminati, il silenzio rotto dalle urla dei gabbiani. Finché l’aria, immobile, comincia a spostarsi, e da lontano, nel vento che corre tra i binari come in un corridoio di vetro, sento arrivare il treno.



Maratea, luglio

La luce scivola come acqua dalle montagne. Mi perdo tra le strade strette, salgo e scendo gradini. Dietro un hotel abbandonato, si apre la baia di Maratea, verde nella roccia polverosa. Mi butto in acqua dopo la notte insonne. Da qui scorgo da lontano, piccola nella distanza, la statua del Redentore. Un giovane carabiniere conosciuto in paese si offre di darmi un passaggio fino in cima. Mi racconta della sua vita. È in vacanza, lavora a Potenza, viene qui il fine settimana “per guardare il mare”. Ma la sera va a Sapri perché qui a Maratea “non c’è niente da fare”. In macchina mi guarda con malizia, alternando nelle parole, nei gesti un po’ di coraggio e un po’ di timidezza. Mi chiede quanti anni gli do, io abbondo. Ne ha solo ventitré, mi dice, felice che gliene dessi di più. Mi lascia sulla cima, mi saluta con dolcezza. Si offre di venire a riprendermi più tardi. Lo ringrazio, gli dico che lo chiamerò se mi perdo.

Di fronte a me la statua di cemento armato, gigantesca e fredda, di un Cristo senza espressione, quasi senza volto, alto, massiccio, le spalle contro il mare.

Sul sentiero di San Biagio: il mare è una lastra di luce. Tra montagne appuntite, mostri di abusi edilizi, grandi costruzioni di cemento bianco. Alti cavalcavia tagliano la schiena del monte, anelli di autostrade ora in disuso. E alle rovine della città antica, una galassia di pietre arrangiate sul promontorio come lune, anche questi grandi hotel e sogni di hotel diventano relitti, già passati di moda. Così la bellezza travolta, ferita davanti agli occhi di chi la guarda, irrimediabilmente perduta.



Da Marina di Maratea a Villa S. Giovanni, luglio

Dal finestrino del treno il mare trasparente, Praja, Diamante, Paola… poi a Villa San Giovanni salgo sul traghetto: il mare agitato dal vento e dalla corrente, ha il colore della notte, il sole non sembra in grado di toccarlo, viene assorbito senza rifrangersi. Al di là del mare, al di là dello stretto, tra linee azzurre e verdi, appare la Sicilia.



Catania, luglio

Appena fuori dalla stazione di Catania il quartiere di San Berillo è una ferita aperta nel cuore della città. I palazzi bassi, abbandonati cadono a pezzi. Fuori da una panetteria, una fila di cipolle dorate e bruciate sui carboni di una piastra nera. Le tavole calde sono gremite di gente che fa colazione con sfoglie, arancini, paste con la marmellata. Scendo una scalinata e mi ritrovo al mercato: una fila di banchi, secchi pieni di pesce che prende vita tra i riflessi di luce. All’ombra di una tenda, di fianco a un blocco di ghiaccio, i gli uomini tagliano i pesci grossi. Sopra la folla si alzano le grida dei pescatori e le voci si compongono in una musica cadenzata, una litania che sembra essere parte di loro come la pesca e il mare.

In una libreria per caso trovo un libro dal titolo “Davanti alla porta,” una serie di testimonianze, aneddoti e descrizioni sulla vita nel quartiere di San Berillo raccolte dall’autore, Francesco Grasso, un travestito che da anni lavora nella zona. Chiedo alla libraia se conosce l’autore del libro. “Franchina,” mi risponde con un sorriso la ragazza con i capelli corti mentre infila il libro in una busta di carta. Con qualche reticenza, vuole assicurarsi che io non sia una giornalista, mi indica il nome di un’associazione che mi avrebbe aiutata a trovarla.

La mattina dopo torno a San Berillo alla ricerca di Franchina. Le ragazze di strada che abitano queste vie sono principalmente sudamericane, riconosco l’accento colombiano e peruviano, ma ci sono anche ragazze africane e italiane. Anche l’età varia, ci sono ragazze giovani, donne, alcune più mature. Sono sedute davanti agli usci delle case, parlano tra di loro, ascoltano musica, fumano sigarette. All’indirizzo che mi è stato dato trovo solamente una saracinesca abbassata. Mi avvicino a un gruppo di donne sedute all’angolo della strada. “Cerco Franchina,” chiedo. “Franchina non c’è, torna verso le tre”. Mi risponde una ragazza.

Vado a fare il bagno. È ora di pranzo, ma se potessero i bambini si tufferebbero insieme al panino che le madri gli hanno messo in mano, allora danno un morso al panino, perché finisca presto. L’acqua è l’acqua verde di porto, lucida, l’odore pungente.

Alle tre torno a San Berillo. Trovo Franchina sull’uscio della casa, la sedia sbilanciata contro il muro, le gambe poggiate sullo stipite della porta. Mi rendo conto di essere impreparata all’incontro. Delle tante cose che avrei voluto chiederle non me ne viene in mente nessuna. È molto bella, il viso chiaro, i capelli biondi un po’ spettinati, gli occhi azzurri e grandi. “Ho letto il suo libro,” le dico, a voce bassa, per non rompere il silenzio del pomeriggio di San Berillo che improvvisamente mi sembra spesso, pieno e avvolgente.

Non ricordo esattamente che cosa le chiesi, ma era una domanda sull’amore. “Ma io non so niente sull’amore” mi rispose, lo sguardo timido e incerto.



Augusta, luglio

Sulla strada per Siracusa, vorrei visitare gli stabilimenti petrolchimici di Priolo e Augusta, ma sono senza macchina, e sarebbe più facile attraversare il deserto di Sonora che trovare un autobus in questa parte di Sicilia. A Catania in una tavola calda incontro un uomo che si offre di accompagnarmi. È un professore, conosce bene la zona ed è felice di distrarsi dal vuoto dell’estate accademica. Il giorno seguente lo trovo puntuale all’angolo della strada dove ci eravamo dati appuntamento.

Dopo pochi chilometri iniziano a intravedersi le ciminiere, come alberi di navi sull’orizzonte. Usciamo dall’autostrada e dal finestrino della macchina, appare la raffineria: fabbriche, ciminiere, cisterne si estendono per chilometri, da Augusta, a Priolo, fino a Melilli e Siracusa. Quanti chilometri? Chiedo al professore. “Da qui a Siracusa sono più o meno 35”. Cerco di rubare a quest’uomo umile e poco attraente qualche informazione in più sulla sua vita. Ma le mie domande ricevono risposte vaghe, e la conversazione ripiomba nel silenzio. Imbocchiamo la strada che costeggia la spiaggia. Gli chiedo se possiamo fermarci, vorrei scattare delle foto. Più in là, mi risponde, conosce un posto da dove è possibile vedere la baia intera.

La macchina si ferma alla volta della curva, di fronte a una distesa di ponti, contenitori enormi di ogni dimensione, tubi di metallo avvinghiati a impalcature d’acciaio che si allungano per chilometri fino ad arrivare al mare. Dalle bocche delle ciminiere più alte si levano le fiamme degli stabilimenti, e più in là, pannelli blu, un groviglio di cavi, scalette, torri che brillano sotto il sole. Negli ultimi vent’anni la raffineria ha riversato in mare 500 tonnellate di mercurio, e idrocarburi pesanti, per una media di tredici milioni di metri cubi di sedimenti nocivi, che equivalgono alla somma di quattrocento palazzi di ventiquattro piani ciascuno…. Ogni 28 del mese il parroco legge i nomi dei morti…

Ma il professore, che era stato silenzioso fino a quel momento, pensava a tutt’altro:

“Qui un tempo vivevano le sirene…giocavano a palla dentro l’acqua, e il bianco delle loro bende era la schiuma del mare o un giglio sull’erba, i capelli scuri erano allo stesso tempo tronco e roccia, l’aurora del volto un colore del cielo, un rossore di terra…così che a metà tra cielo e mare, il paesaggio nasceva attraverso i loro corpi, e le loro voci insieme facevano un vento, un silenzio. E il gioco era questo, che il paesaggio diventasse favola e la favola paesaggio.”

Il professore tace di nuovo. E mi sembra, quando mi volto a guardarlo, che abbia perso la sua figura esile, quel colore grigio che aveva nel caffè; ora gli occhi brillano di azzurro, lucidi e intenti sull’orizzonte. Mi accompagna in stazione e aspetta in auto di vedermi salire sull’autobus prima di ripartire.





(continua…)


Francesca Coppola è scrittrice e filmmaker. I suoi testi sono stati pubblicati su BOMB Magazine, NY Tyrant, Fence, FU Review Berlin e altre riviste. Ha pubblicato un libro di poesie (Where the Sirens Live, 2019). Vive a Roma.